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L’Uomo
senza più ombra
Carlo Prumirni, di anni
quarantotto,
sposato, un figlio - con un pesante e goffo movimento, accompagnato da
un basso mugugno, sporse il braccio dalla pesante trapunta di color
marrone
che ne copriva il corpo disteso a letto per interrompere il cicalio
elettronico
della sveglia, già da non poco echeggiante nella stanza immersa
nel buio. Il braccio percorse lentamente e meccanicamente una parabola,
dal bordo del letto al comodino – il consueto movimento, solito, sempre
uguale, da tanti anni a questa parte, tanto che l’aria del locale, in
quel
punto, pareva in qualche modo aver assorbito l’effetto del movimento
dell’arto,
ne fosse rimasta la traccia, come il solco d’un sentiero delineato in
un
prato dal continuo, ininterrotto passaggio.
Ancor più pesantemente
si
levò dal giaciglio, quasi spossato e parimenti confuso, incapace
di comprendere il motivo di quella stanchezza. Impiegò ancora
qualche
secondo per schiudere le palpebre, e per rendersi conto che la stanza
non
fosse del tutto buia, o forse lo sembrasse per via che gli occhi non si
fossero ancora aperti… La luce solare già penetrava attraverso
le
imposte, lasciando nelle vicinanze della finestra un flebile e pur
già
luminoso alone, ma l’uomo ne ebbe quasi fastidio… L’inizio di un nuovo
giorno, un altro giorno… Il tepore del letto, la dolce sicurezza del
sonno
richiamava lo spirito impacciato e indeciso, nelle quattro mura
domestiche
resisteva la certezza d’un rifugio, d’un ricovero nel quale anche la
gloria
meravigliosa della luminosità diurna sembrava un elemento di
inquietudine,
incontrollabile, inconcepibile… Tuttavia la sveglia aveva suonato, e
Carlo
Prumirni, in fondo, non si rese nemmeno conto di quella luce, la
capacità
percettiva forse abbandonata in qualche anfratto onirico – o in qualche
meandro di realtà, lasciata lì, come l’acqua d’un fiume
ristagna
in una ampia ansa scostandosi dal corso vitale della corrente…
La signora Prumirni, accanto,
sembrava
dormire ancora profondamente.
L’uomo si alzò, con
fatica,
poi barcollando si diresse verso il bagno. Cambiò direzione, a
metà
corridoio, due passi verso la cucina, poi si voltò ancora, e
ancora
verso il bagno. Non si curò d’osservare oltre il ristretto
ambito
nel quale le poche, semplici azioni di quei momenti si sviluppavano, da
tanti anni a questa parte, forse non ve n’era nemmeno il bisogno… A che
pro, d’altronde? Che sarebbe servito guardar oltre, osservare al di
là?
Forse che, se egli avesse aperto le imposte e osservato il cielo, e si
fosse accorto che sfolgorasse di rosso, e il Sole fosse divenuto nero,
o viola, o chissà come, e che il fiume di là dal ponte
scorresse
all’indietro, o che piovesse e la pioggia però salisse dal basso
verso l’alto e non viceversa – forse sarebbe cambiato qualcosa nel
corso
delle sue azioni quotidiane di quei momenti? E poi, anche se ce ne
fosse
stato il bisogno, o la volontà, probabilmente non c’era il tempo
necessario, proprio no!… E se esso vi fosse stato, perché farlo?…
Il bus… Forse era già
in
ritardo… Ecco cosa poteva succedere a perdersi in elucubrazioni mentali
futili e inutili…
Si lavò sommariamente,
si
vestì – i soliti, grigi vestiti – non v’era motivo di
abbigliarsi
meglio – la colazione, il caffè sempre troppo dolce o troppo
amaro,
i biscotti sempre finiti, e quando c’erano sempre troppo stantii.
Tuttavia
egli riteneva inutile prestare troppa attenzione a queste piccole cose
- ne aveva avuta prova solo pochi istanti prima – e sempre sosteneva
che
la vita non abbisognava di troppa capacità di pensiero:
ciò
non faceva altro che complicare l’esistenza, e già tanti, forse
troppi, erano dediti al “pensiero”, e, comunque, quelli bastavano –
erano
lì apposta… Il passato era passato, il futuro doveva ancora
arrivare;
in quanto al presente… Beh, in fondo il presente non esisteva nemmeno,
un istante che appena prima era futuro e subito dopo era passato – o
così
gli pareva d’aver letto una volta su un qualche libro, o giornale, non
ricordava…
Vestì il soprabito
scuro,
prese la vecchia borsa di pelle ormai sgualcita. Nell’elenco delle
azioni
da svolgere quotidianamente v’era il saluto alla moglie ancora
assopita,
ma quella mattina, per una vaga sensazione di essere in ritardo, o
qualcosa
del genere, passò oltre la porta della stanza. Tanto, ella
dormiva,
forse…
Scese le scale – dal terzo
piano
al pian terreno: l’ascensore, quando non era occupato, era guasto, ed
alla
visione della porta dello stesso scattava sempre automatico il pensiero
di un sollecito ed una protesta presso l’amministratore del condominio…
Sempre da due o tre anni a questa parte, e puntualmente disatteso;
d’altronde
ci dovrebbe essere pur stato qualcun altro, nel palazzo, ad aver
contattato
il responsabile… Si premurò con sé stesso di appurare
questa
cosa, cercando di fissarla in qualche modo nella mente.
La fermata del bus – il 56, un
quarto
d’ora scarso di percorso, fino giusto davanti all’ingresso dell’ufficio
– distava dal condominio non più di duecento metri, sullo stesso
lato del marciapiede. La giornata pareva bellissima, il cielo assai
limpido
e la temperatura mite, ma nuovamente un certo fastidio egli sentiva di
accusare verso quella gloriosa bellezza naturale che inondava lo
spoglio
viale d’un fulgore favoloso, persino esagerato per quell’ambiente
dismisuratamente
urbano ove sembrava che unica peculiarità fosse il flusso
continuo
del traffico automobilistico, il rumore dello stesso e l’indifferenza
di
ogni altra essenza. Ma quella mattina i profili degli alti palazzi
sembravano
aver trovato ciò che potesse sconfiggere la loro incombente
monotonia,
e le lunghe ombre spante lungo il viale si mescevano ad ampi spazi di
limpida
luminosità in un continuo gioco di luci e semioscurità
così
particolare da sembrare dipinto da uno di quei grandi pittori le cui
opere
egli vedeva sovente allegate in omaggio a qualche quotidiano, ma di
cui,
per nessuno di essi, ricordava in quel momento il nome…
Stranamente, quella mattina,
il
marciapiede era assi meno affollato del consueto. Carlo Prumirni se ne
rese conto anche perché, a differenza degli altri giorni, stava
urtando meno passanti del solito, egli così abituato a camminare
con lo sguardo sempre rivolto più a terra che altrove, assorto
in
un non-pensiero che gli faceva trovare la sensazione vaga di un ultimo
sollievo prima di affrontare le solite, noiose incombenze lavorative.
Tuttavia, i suoi occhi
dovevano
di lì a poco accorgersi di una cosa ancora più strana,
bizzarra
e straordinaria, quando nel transito in un tratto di marciapiede
inondata
da quella splendida luce mattutina – in un istante ove lo sguardo quasi
prodigiosamente riacquisì la naturale, antica capacità di
visione, di percezione del mondo d’intorno - naturale per
ovvietà
ma oramai all’apparenza confusa, smarrita dall’immutabile piatto
orizzonte
che la mente credeva di dover acquisire dall’analisi visiva – egli,
Carlo
Prumirni, si rese conto che la sua figura in moto e illuminata dal Sole
non produceva più alcuna ombra. Niente, nulla, nessuna
proiezione
oscura sull’asfalto sul terreno, nemmeno a muovere le gambe, le braccia
– come egli faceva nel tentativo di riacquistare la facoltà
perduta…
Più sorpreso che
spaventato,
si fermò di colpo sul marciapiede. Prese ad osservare intorno:
nulla
sembrava avere qualcosa di strano, nulla che potesse in qualche modo
giustificare
la bizzarria di cui stava avendo prova concreta… Pensò di
chiedere
a qualche passante, se anche a qualcuno di essi stesse verificandosi lo
strano evento, o se in ogni caso potessero confermargli la sua
constatazione…
Ma i pochi passanti transitavano via veloci, avvolti nei loro abiti
come
in scudi impenetrabili ove un mondo individuale e inaccessibile non
permettesse
alcuna intromissione estranea; nessuno guardava in faccia nessuno,
scivolando
via come d’autunno le foglie lungo la superficie d’un fiume piccolo e
pur
vigoroso nel suo corso; nessuno considerava alcun altro, tutti come
entità
quasi ectoplasmiche, presenze vaghe, incoerenti l’una all’altra…
D’altronde,
quando mai egli aveva goduto della considerazione altrui in
quell’angolo
di spazio-tempo, in quelle mattinate sempre identiche di fretta, di
monotonia,
di piattezza, di noia, di sterilità vitale? Tutti verso il
proprio
lavoro, tutti verso un compito da svolgere per ottenere qualcosa in
cambio:
giusto, ovvio, naturale, ma con quale cognizione della realtà,
con
quale valenza rispetto al resto del mondo intorno? Ma in fondo era
giusto
così, deve essere giusto così, la realtà si regge
su queste cose… Eppure…
Eppure l’ombra era scomparsa.
Veramente,
bizzarramente, non c’era più. Come inebetito, immobile sul
marciapiede,
travolto da un qualcosa di improvviso e misterioso, molto molto
più
grande di ogni sua possibile capacità di comprensione… Possibile
che nessun altro si rendesse conto di quell’assurdo fenomeno, nessuno
di
quelli che gli passavano accanto veloci e perfino disdegnosi? Avrebbe
voluto,
in quei momenti, un poco più di presenza di spirito, di forza
d’animo,
per fare qualcosa, per risolvere o almeno comprendere la situazione, ma
con l’ombra pareva essere scomparsa del tutto anche la vitalità
che ne animava le abituali, minime azioni quotidiane…
Si scostò un poco, con
passi
lenti raggiunse una zona d’ombra, qui si fermò qualche secondo.
Si stava sbagliando? Era tutto una specie di allucinazione? Forse
sì!
Rise sommessamente, pensando che, probabilmente, quella mattina si era
svegliato veramente in malo modo, prima di tornare – ancora con la
massima
lentezza – verso una zona illuminata…
Niente! Nulla, nessuna ombra…
La
sua figura, perfettamente illuminata dal Sole sfavillante in costante
ascesa
sull’orizzonte… E nessuna ombra!… Nessuna…
Si accostò al muro,
molto
agitato, terribilmente confuso e scosso – ancor più per
l’incapacità
di comprendere l’evento, per il non poter capire non soltanto il
motivo,
ma neppure il fatto stesso – per non capire, in realtà, nulla di
nulla di ogni cosa…
Accanto al marciapiede, un
muretto
basso e sporco di smog e di grigiume vario; vi si appoggiò,
sconfortato
seppure senza intendere da che cosa. Lo sguardi si smarrì per
qualche
lungo istante nel vuoto assoluto d’una condizione d’impotenza verso un
fatto tanto bizzarro quanto assurdo, impossibile eppure reale,
concreto,
ormai assodato. Il bus che lo avrebbe portato verso il luogo di lavoro
si avvicinava, tra pochi minuti sarebbe transitato, ma Carlo Prumirni
vi
pensò soltanto fugacemente, senza cura, come a un qualcosa
improvvisamente
divenuto parte d’una dimensione diversa, lontana, discosta… Oh, ma
avrebbe
dovuto comunque prenderlo, anche senza ombra: l’attività
lavorativa
quotidiana lo aspettava, lo attendeva, lo bramava… Ma quante volte, da
quanti anni egli da essa avrebbe voluto in qualche modo fuggire, in
qualche
maniera anche insolita ma definitiva? E non solo da essa, anche da
molto
del resto, dalla vita – non da tutta, ma da una buona parte, quella
parte
che disegnava i piatti contorni del suo orizzonte ordinario – linee
monotone,
dritte, con angoli retti e secchi, e mai curve, curve armoniose,
parabole
dalle quali lanciarsi lontano, in alto o anche solo altrove…
Tuttavia – ancora – pensare
non
serviva a nulla, non gli avrebbe fatto ritrovare la propria ombra,
probabilmente…
Seduto sul muretto – il soprabito già sporcato dalla sozzura che
ricopriva quel mucchio di mattoni e cemento, egli prese ad osservare
intorno,
lentamente, poi a scatti, poi ancora lentamente e ancora a scatti,
quasi
in preda a improvvise convulsioni nervose intervallate da assenze
psicologiche
altrettante repentine; un istinto primordiale e rozzo ora comandava le
sue azioni, o quantomeno il suo sguardo, alla disperata ricerca di un
solo
elemento che potesse far crollare il castello delle paure e delle
angosce
sempre più solido nella sua mente…
Prese a ricercare le ombre
intorno,
se altri oggetti, cose o entità animate presenti nel panorama
visivo
presentassero la sua stessa straordinaria e nuova peculiarità…
Palazzi,
lampioni, alberi spogli, cartelli stradali, le auto e i camion, i
passanti
qua e là… Quel gatto sul muretto nel cortile laggiù, i
cestini
della spazzatura sventrati da un qualche vandalo, i tabelloni
pubblicitari,
le moto e le biciclette, gli uccelli nel cielo, nel cielo azzurro,
limpido,
purissimo, inondato di meravigliosa luce solare – così beffardo,
ironico, sarcastico nei confronti della sua condizione di uomo senza
più
ombra… Ebbene, tutti, tutti, tutti gli oggetti, nessuno escluso, le
cose,
le persone, gli animali e quant’altro – ogni cosa con la propria bella
ombra… Tutti, meno lui…
Passò il bus, neppure
lo
vide – una scia fugace color arancione come sabbia d’un deserto
trascinata
dal vento e già scomparsa in mezzo al nulla d’intorno…
Che cosa gli era accaduto?
Perché
la sua figura non aveva più ombra? Perché si sentiva
tanto
estraneo in quel mondo quotidiano dove mai s’era preoccupato più
di tanto di farsi considerare e di sentirsi in qualche modo
considerato?
E perché – per di più – in quel momento fenomenale, di
realtà
eccezionale, ancor maggiormente pareva che nessuno lo notasse, nessuno
percepisse la bizzarria in corso, quasi che egli nemmeno esistesse?
Carlo
Prumirni si interrogava, cercando di recuperare un minimo di
lucidità
mentale – per quanto gli accadimenti lo consentissero, ma le domande
nella
mente echeggiavano confusamente rimbalzando qua e là nel caos di
mille e mille paure, ingigantite dalla assoluta misteriosità e
inconcepibilità
del fenomeno vissuto. Egli sentiva di dover comprendere il motivo di
quella
cosa, ma ancor prima e fondamentalmente che cosa fosse quell’evento, e
l’impresa pareva sconfortarlo fin dal suo concepimento… Seduto sul
muretto
sporco, ebbe la terribile sensazione di essere alieno al mondo intorno,
di non farne più parte per qualche oscuro motivo: una sensazione
raggelante, terrificante, atroce.
Forse era nel bel mezzo di uno
sconosciuto
fenomeno fisico, che per chissà quale concomitanza di fattori
provocasse
la mancanza di ombra? Forse…
O forse un improvviso e
inaspettato
difetto ottico impediva alla propria vista di osservare la
scurità
dell’ombra, il colore spento, quel tono tenebroso? Forse…
E se – ancora – il tutto fosse
il
frutto di una inopinata allucinazione? Forse…
Restò ancora, per
lunghissimi
istanti, inebetito. I passanti transitavano sempre veloci, incuranti di
ogni cosa, apatici. Doveva essere il caso di avvertire la moglie,
chiamare
un dottore, prendere qualche medicina atta al caso – ve ne sarà
stata sicuramente qualcuna adatta all’uopo: a casa aveva una farmacia
ben
fornita… Beh, certo, qualche medicinale forse era scaduto, ma… E se
dormiva
ancora – la moglie? Pareva più assopita del solito, quella
mattina…
Si alzò dal suo misero
e
sporco seggiolo. Volle dare ancora una lunga e ponderata occhiata
intorno,
prima di tornare verso casa, ed alzandosi percepii vivamente una
tremenda
spossatezza, che sembrava essersi profondamente impadronita delle sue
membra,
fino alle ossa… Nulla era variato rispetto a poc’anzi: ogni oggetto con
la propria ombra, il traffico, il cielo limpido, il Sole già
alto,
il puzzo dello smog, i passanti veloci e indifferenti, la sensazione
fortissima
di alienazione totale, di paranoica estraniazione, la confusione che
pareva
levare essenza, valore e significato da ogni cosa… L’assenza della sua
ombra… L’incapacità di comprendere, l’impressione viva di essere
alla mercé d’un fenomeno troppo grande per essere compreso…
S’incamminò,
stancamente,
lentissimamente, verso casa.
Dopo solo pochi passi si
fermò,
bloccandosi del tutto in mezzo al marciapiede, tremando appena appena.
Se qualcuno lo avesse notato, avrebbe visto disegnarsi sul viso
un’espressione
stralunata, quasi folle, alternata ad un’altra assolutamente
terrorizzata,
sconvolta. Ma tutti scivolavano via accanto alla figura immobile sulla
banchina, nella cui mente eccitata dalla straordinarietà del
vissuto
e dallo sgomento un’ipotesi assurda, sconvolgente e illogica si stava
formando.
Si voltò intorno con
scatti
nervosi, convulsivi, due, tre volte, come se qualcuno lo minacciasse
gravemente,
quasi alla ricerca di una ultima via di fuga consapevolmente
impossibile,
ormai… Ma come poteva essere, quella, la spiegazione di ogni cosa, come
sarebbe stato possibile? No, non poteva essere vero, era una
assurdità!
Certo, di sicuro… Impossibile… Eppure…
Nel mentre che il tremore
sparso
per il corpo intero aumentava d’intensità, riflettendosi nella
mente
con la più terribile entropia, Carlo Prumirni si sforzò
di
mantenere e seguire un filo logico dei fatti di quella mattina,
ripassando
ogni cosa nel tentativo di confermare o confutare quell’idea
strampalata
che gli era balzata improvvisamente in testa.
Dunque, si era alzato,
stancamente,
come al solito, già in quelle ore d’inizio giornata, svogliato,
abulico – è vero, ma si era alzato; la moglie dormiva, molto
profondamente,
non lo aveva proprio nemmeno sentito… Di solito si svegliava,
brontolava
qualcosa, protestava per il disturbo; una volta si alzava per
preparagli
la colazione, ma ormai da qualche tempo… E quella mattina proprio
nulla…
Poi, che aveva fatto? In bagno, la solita frugale colazione, si era
vestito,
era uscito… Il marciapiede, il bus da prendere, il lavoro che lo
attendeva…
Le cose ordinarie, le azioni quotidiane sempre uguali, meccaniche,
monotone,
mai una variazione, almeno fino a poc’anzi…
Ecco, anche il marciapiede, i
passanti:
meno, molti meno del solito, e ancor più indifferenti rispetto
alle
altre mattine, estranei, lontani quasi… Come se egli e il mondo
d’intorno
si muovessero su due piani differenti, separati, senza più
possibilità
di interazione… Oh, certo, tante altre volte aveva avuto quella
sensazione,
ma così, come in quel momento… Quasi che il mondo intero non lo
considerasse più, via, inesistente, non più parte della
realtà…
Allora, veramente poteva
essere
concreta l’assurda ipotesi così vivida nella mente? La moglie
che
non lo aveva sentito, per nulla; i passanti, impassibili, distaccati
come
mai prima d’ora; il mondo lontano, lontanissimo, separato, tutto
così
strano, così incoerente; la sensazione vivida e dominante di
alienazione…
E la scomparsa dell’ombra…
Un violento fiotto di lacrime
gli
rigò velocemente il viso impallidito e atterrito. Era
così
assurdo, ma così possibile, terribilmente possibile… E come
null’altro
spiegava quella paradossale situazione… Ebbene, non poteva che essere
morto!
Egli era morto, Carlo Prumirni di anni quarantotto era morto,
chissà
come ma morto, deceduto, andato, spirato… Morto!
Si sentì svenire ma non
svenne,
non cadde in terra. Si appoggiò ad un muro accanto, il corpo in
preda a intense convulsioni frutto del terrore e del pianto a dirotto,
irrefrenabile – immobile, rigido, senza più forza alcuna nelle
membra
e nello spirito, ormai inconsciamente consapevole della propria certa
fine.
E così rimase, per interminabili attimi, lunghi più che
un’eternità
o forse brevi, brevissimi, fulminanti, in una nicchia mortale senza
più
tempo, senza più alcuna valenza vitale, inerte.
Si riebbe improvvisamente,
come colpito
da una fortissimo malrovescio, madido di pianto e di sudore,
infreddolito,
scosso da violenti brividi; era sempre lì, immobile e appoggiato
al muro accanto al marciapiede. D’istinto guardò subito verso
terra:
no, l’ombra non c’era, non ci sarebbe stata più. Era morto,
veramente…
Si asciugò le lacrime
col
bavero del soprabito, si tirò dritto, sui piedi. In fondo, che
serviva
piangere? Nulla, come niente più d’altro sarebbe servito, ormai!
I vivi potevano piangere per la perdita di qualcosa, ma egli era morto,
dunque…
Che doveva fare, ora? Come si
devono
comportare i morti, quando muoiono? Sarebbe pur dovuto andare da
qualche
parte, in teoria… O forse solo dopo il funerale? Era assai confuso
prima,
da vivo, ma anche ora la situazione non s’era variata poi di tanto…
Prese
a camminare, molto lentamente, verso la parte opposta del viale
rispetto
a quella che tutte le mattine percorreva, per andare alla fermata del
bus;
la strada correva dritta fuori dalla città, da quel lato.
Pensò
che era tanto, tanto tempo che non percorreva quel tratto di strada,
che
nemmeno più ricordava il paesaggio che si trovava laggiù:
sempre obbligatoriamente legato ai soliti percorsi, casa-lavoro-casa e
poco più, in una tarpante monotonia che aveva fatto smarrire
ogni
volontà di variazione dell’orizzonte, della visione degli occhi,
di percepire qualcosa di diverso se non di nuovo… Bizzarro che soltanto
ora, da morto, si ritrovasse a percorrere quella via… Anzi – ancora
più
bizzarro e particolare – d’improvviso si ricordava che una volta, tanto
tempo addietro, aveva letto qualcosa di un tale che non aveva
più
l’ombra, o qualcosa del genere… Sì, certo, ma cos’era? Un film,
o uno sceneggiato in TV, o forse un libro… No, difficile che fosse un
libro,
non aveva mai letto troppo, pur se tante volte si era ripromesso di
cominciare
a farlo, ma puntualmente, ogni volta, il tempo libero si dileguava in
insulse
visioni televisive o in nullaggini varie… Non ricordava cosa fosse, che
storia fosse di quel tale, ma strano era comunque, che anche ad egli
capitasse
la stessa insolita cosa…
Tante cose, in effetti,
avrebbe
dovuto fare nella propria vita – egli pensava, mentre continuava a
camminare
con lentezza: cose di valore, più di valore e importanza – di
certo
- di quelle che per tanti anni s’era ritrovato a fare, e che l’apatia
del
tempo presente cancellava da ogni possibile intendimento… Sempre le
solite
azioni compiva, tutti i giorni, e a volte anche in quelli ove non v’era
da recarsi sul posto di lavoro: sempre, monotonamente, e le poche
variazioni
al programma chi le forniva? Quasi sempre la televisione, o altre cose
del genere – comunque mai per iniziative proprie, per una qualche
volontà
di cambiamento… In fondo, che differenza c’era tra la sua vita e quella
d’un carcerato? L’attività quotidiana era come scandita da una
tabella
rigida, allo stesso modo che in un carcere:
sveglia-colazione-lavoro-mensa-lavoro-cena-letto,
e così via, il giorno dopo ancora e quello dopo ancora, e
ancora…
L’ora d’aria, sì, nel tragitto tra la propria abitazione e il
posto
di lavoro e niente più! La domenica, qualche gita fuori porta –
ecco, questo non è permesso a un carcerato, ma almeno egli non
si
sarebbe ritrovato a passare ore intere nel traffico e in un qualche
ingorgo
respirando aria putrida per giovarsi di qualche momento di svago al
lago
o in montagna – quasi più scarso che il tempo passato in
automobile…
E le vacanze? Sì, le vacanze estive: sempre uguali, in un posto
o nell’altro ma sempre le stesse, ordinarie vacanze… Forse, la vita del
carcere contava meno aspetti negativi: vi era libertà, in
effetti,
nella sua vita? La libertà vera, reale, pura, l’anelito verso
cui
ogni essere umano e ogni creatura vivente tende e desidera? C’era la
libertà
della società moderna, calata dall’alto, libertà imposta
e indissolubilmente legata a dettami fissi stabiliti dal conformismo,
dai
cosiddetti benpensanti – e chi sono poi questi? Quali diritti vantavano
su di egli, e per quale potere? La sua vita era quella di un uccellino
in una stretta gabbia, con la possibilità di volare, sì,
ma in un così ristretto spazio… E che vita era, dunque? Per
questo
si doveva venire al mondo, e per null’altro di più interessante?
Tante tante cose, veramente,
egli
si rimproverò di non aver fatto nella vita: anche piccole,
semplici,
ma di valore, di un qualche spessore e bontà, qualcosa di cui
andare
un poco fieri con sé stessi… Qualcuno forse già disse che
le grandi cose sono fatte di miriadi di altre più piccole…
Restò assorto,
continuando
a camminare con lentezza lungo il viale che portava fuori dal grande
agglomerato
urbano, pensando a tutto ciò che, in quel momento di
straordinaria
assurdità, gli capitava in mente. E provò un sottile,
placido
e pur vibrante piacere nel constatare ciò: stava pensando, gli
piaceva
pensare, sentiva di riscoprire un diletto abbandonato da tanto tempo…
Ecco
– per l’appunto – una cosa che avrebbe dovuto esercitare ben più
spesso in vita! Perché non aveva mai pensato come stava facendo
in quel frangente! Un’attività semplice, la più semplice,
eppure una delle più grandi a disposizione dell’uomo, l’unica,
reale
libertà veramente in possesso dell’essere umano! Ma pensare gli
sembrava inutile, in vita, quando la routine quotidiana offriva tutto
di
quello di cui riteneva di necessitare, e tutto quello oltre pareva
qualcosa
di irraggiungibile; ora, bastava giusto qualche pensiero, mettere un
poco
in moto la ragione, l’intelletto e mille semplici e parimenti
fondamentali
verità uscivano dalla fitta nebbia grigiastra che le celava come
per effetto di un colpo di vento improvviso… Si rallegrò di
ciò
– per quanto potesse servire il pensare, una volta defunti – ora che
nemmeno
più la luce lo teneva in considerazione, privandolo dell’ombra!…
Già, ecco perché
non
più l’ombra della sua figura si disegnava sul terreno! Ovvio,
che
se ne faceva uno spirito dell’ombra? E forse già il suo corpo
era
divenuto evanescente, come quello d’un fantasma… Se così era,
tuttavia,
ad egli non ne veniva fornita prova, per il momento…
Proprio non pensava, Carlo
Prumirni,
che la sua morte potesse essere così… Così particolare,
inconsueta,
bizzarra… In verità, non aveva mai pensato a come potesse
avvenire
la propria morte – non era certo il caso di farlo, da vivi…
Fortunatamente
era stata indolore, o almeno di una qualche sofferenza egli non serbava
il ricordo… Mille e mille altri ricordi, viceversa, passavano per la
sua
mente, quasi tutta la vita, in pratica – proprio come dimostravano nei
film, quando in fronte alla morte, l’intera vita di un individuo viene
mentalmente raffigurata come una pellicola in un cinematografo… Con non
poca confusione – e visioni spesso sbiadite dall’apatia – egli
rimembrava
buona parte della sua vita, con vari flash su momenti di
quotidianità,
su giornate normali e su altre particolari, come sprazzi di luce in una
stanza dei ricordi altrimenti pressoché buia…
La sua vita più
recente:
monotona, piatta, senza valore, senza volontà di cambiamento, di
innovazione, soggiogato dall’ordinarietà, soffocato dall’abulia,
stordito dagli ingannevoli scintillii della società
contemporanea,
unico fugace ed effimero svago dalla tediosità d’insieme… La
nascita
del figlio… Il matrimonio… La giovinezza, quando gli istinti vitali
sembravano
fornire la forza per rovesciare il mondo intero, e che poi la stessa si
stemperava velocemente in mille delusioni, sconforti anche piccoli,
spesso
ingiustificati, mai compresi del tutto – in quell’età nella
quale
l’istinto non s’asserviva ancora all’intelletto ma ad una più
rozza
e incolta fisicità… La scuola, l’adolescenza… I primi amori, le
prime indipendenze – bastava stare lontani un giorno intero da casa per
sentirsi spiriti liberi, girovaghi di un mondo circoscritto in pochi
isolati…
E l’infanzia, quando col nonno, in campagna, spesso si recava ad
esplorare
colline, vallette, boschi – nulla di speciale, in fondo, in quegli
spazi
naturali a pochi chilometri dal centro della città e che eppure
parevano divenire gli sconosciuti territori d’un continente lontano ove
la fantasia si potesse sbrigliare e lasciare correre liberamente…
Già, la fantasia,
un’altra
grande sconosciuta nella vita che aveva appena lasciato! La purissima
energia
frutto del moto del pensiero, quel vigore che permette all’uomo di
poter
credere anche all’incredibile, di inseguire ciò che sembra solo
un sogno, di aprire il proprio spirito per ricevere le più
meravigliose
virtù e trasformarle in realtà nei propri moti
quotidiani!
Si rendeva solo ora conto che aveva compiuto azioni ben più
interessanti
e ricche di valore nell’infanzia, in quel tempo spensierato che dona al
bambino i pensieri più puri e scevri di sofisticazione,
piuttosto
che negli ultimi anni di vita… Soltanto quando, nel bosco, col nonno,
ci
si fermava immobili, in silenzio, per udire il canto melodioso degli
uccelli,
o l’ondoso fruscio delle alte chiome dei faggi – sì, dovevano
essere
faggi e castagni… – quando il vento penetrava tra le fitte chiome
arboree:
almeno, in quei semplici momenti, vi era la consapevolezza della vita,
e della sua bellezza profonda, intensa e favolosa; era viva la
capacità
di sorprendersi e felicitarsi di piccoli grandi eventi, all’apparenza
insignificanti
eppure potentemente significativi; e v’era la cognizione della
realtà,
del tempo e delle spazio, delle meraviglie del mondo dalle quali
l’intelletto
imparava ogni istante di più i segreti della vita… Anche
soltanto
queste semplici azioni, che non necessitavano di nulla più che
d’un
animo puro e ben predisposto, avevano seco un grande valore: grazie ad
esse, la vita era colma di cose nuove, e si riusciva a coglierle… Anche
ora – o meglio fino a poc’anzi, quando era in vita, il mondo certo
offriva
miriadi di novità, ma come si poteva percepirle, chi lo poteva
fare?
L’abitudine alla piatta quotidianità avevano tolto alla
maggioranza
queste semplici e basilari doti, e consapevolmente – e colpevolmente –
egli di ciò si rendeva conto senza avere la forza e la
volontà
di comprendere… L’uomo, attraverso l’abitudine, si assicurava contro
l’invadenza
delle cose esterne, delle novità, che in un modo o nell’altro
fanno
e faranno sempre paura: ci si chiudeva in un mondo proprio,
negativamente
egoistico e nel quale si riteneva che ci si trovasse bene, soddisfatti
e liberi: ecco, la gabbia angusta del povero uccellino di poc’anzi!
Eppoi,
coloro che si arrogavano il diritto di stabilire ciò che
è
bene e ciò che è male nell’ambito della società e
del tempo presente, mascheravano le solite cose, trite e ritrite, come
“innovazioni”, le offrivano alla massa che le accettava dacché
inebetita
dallo stesso meccanismo perverso, così cogliendo i classici due
piccioni con una sola fava: tutto restava uguale, ma si poteva far
credere
che tutto si evolvesse… Così si manteneva e si mantiene il
potere,
grazie allo stato di fatto immutabile! I vivi, la massa, nella sua
informe
enormità assorbe ogni cosa, come assorbe e devitalizza ogni
possibile
spunto di effettivo e giusto cambiamento: tutti erano – egli compreso -
una immane e terribile ameba, che coglieva un evento, lo inglobava e lo
cancellava quasi subito, incapaci di comprenderlo e di trarne qualsiasi
significato…
Come tanti zombies – si diceva
così,
ad egli pareva – vivi tutti eppure, in qualche modo, morti
spiritualmente:
e il mondo scivolava via, immutabile continuamente verso il futuro
tenebroso…
Forse già da vivo egli
non
la meritava proprio, l’ombra – rifletté sconsolato… Essa sarebbe
stata la prova che il copro era illuminato, e non solo dalla luce
solare
ma anche dal valore prezioso della vita, dal fulgore delle più
semplici
virtù, cancellate invece dalla quotidianità a favore di
mille
e mille cose insulse e inutili ma capaci di donare quel piacere
effimero
tuttavia così di moda nella società moderna… E intanto il
tempo correva, fuggiva via, e pur nella cognizione di ciò, egli
non aveva fatto niente per nobilitare anche solo un poco qualche ora
della
sua vita… Ebbe un improvviso scatto di rabbia, fendendo l’aria intorno
con un pugno verso il nulla – ma in verità rivolto verso tutto
quello
che era stato – o non era stato nel corso della sua vita… Il tempo
fuggiva,
veloce, irrefrenabile, verso la morte: e si doveva proprio morire per
pensare
un poco a tutto ciò, e rendersi conto di ogni cosa? Già,
ecco, in realtà egli era già morto, già in vita,
nel
profondo del proprio spirito, spento da ogni cosa – lo aveva pensato
poc’anzi:
dunque, morto per morto!…
Bastava poco, così poco
–
e fare qualcosa per sé e per tutto il resto del mondo: un
piccolo
pensiero, un minimo sforzo mentale, una semplice azione… Morto, ora era
morto…
Da ormai tantissimo tempo
camminava,
tante ore, forse, ma ormai aveva completamente perso la cognizione di
ciò…
Carlo Prumirni avvertiva in sé uno stato d’animo particolare,
mai
provato prima: un misto di avvilimento, tristezza, rabbia, e un vigore
strano, che giudicò come inconsueto per un defunto – almeno per
come egli si poteva immaginare questa condizione.
Si fermò; cercò
di
rendersi conto di dove fosse finito. Il lungo viale che usciva dalla
città,
sempre dritto, immutabile, non forniva molti punti di riferimento…
Bizzarro,
però: ora che era morto, che doveva succedere? Sarebbe dovuto
pur
succedere qualcosa… Qualcuno – chissà chi, poi – avrebbe dovuto
dirgli, di norma, la sua nuova destinazione nell’aldilà…
Paradiso,
inferno o purgatorio? O cos’altro – dacché non si poteva
escludere
che tutta quella iconografia normalmente accettata fosse in
realtà
del tutto inventata… Forse, anche per i morti, c’era da aspettare il
passaggio
di un bus – come quello che lo portava quotidianamente sul posto di
lavoro
– solo diretto verso un’altra dimensione, verso il regno dei morti, e
chissà
di che foggia e di quale colore… Sarebbe stata molto triste, tuttavia,
un’evenienza del genere: v’era da prendere un bus anche da defunti, con
tutto il contorno di code, biglietti, ressa e così via?…
Si guardò intorno,
lungamente.
Concluse che doveva essere ormai parecchio fuori dalla cerchia urbana,
e ormai il viale percorso era divenuto un’arteria a grande scorrimento,
con le auto che passavano accanto veloci, fastidiose con il loro rumore
e il puzzo degli scarichi… Il paesaggio però era cambiato,
radicalmente:
la strada si snodava ai piedi di alcune verdi e tondeggianti colline,
che
più dietro salivano in altitudine formando tra di esse tante
vallette;
sui pendii, la vegetazione variava spesso, conferendo al panorama un
armonioso
susseguirsi di colori e di toni: prati verdi, alti alberi – castagni,
riteneva
– qua e là filari di viti… Sotto di sé, la strada
transitava
tramite un ponte su un torrentello, che usciva spumeggiante da una di
quelle
vallette e giusto lì prendeva un corso più placido, da
pianura…
Sotto la strada, nella piana verso la città, tante grandi
infrastrutture
industriali, qua e là tra campi coltivati… Povero torrente –
egli
pensò, che cosa gli sarebbe aspettato ora, con tutti gli
scarichi
ed i liquami provenienti da quelle industrie! Povere acque qui ancora
limpide,
e solo tra qualche chilometro chissà di quale orrendo colore!…
Guardò ancora intorno,
contemplativo.
Sì, aveva camminato veramente tanto, senza rendersene conto… La
città si vedeva laggiù, lontana, attraverso una leggera
foschia
grigiastra, nella direzione verso cui correva la strada.. Pensò
che stava sostando in un punto ove era evidente e netto il contrasto
tra
due mondi assai diversi: da un lato la città, la
modernità,
la società cosiddetta civile, i beni e gli agi e la ricchezza;
dall’altro,
alle spalle, la natura, le colline e le valli, i fiumi e più
dietro
i monti, tutti sinonimi di un’altra vita, forse migliore, forse
peggiore,
certo più spontanea, più genuina, anche più
libera…
Sembrava veramente che fosse tornato bambino, al tempo delle
passeggiate
nella natura con il nonno… Ed ora come allora, sentiva di aver
riacquistato
– almeno in parte – la facoltà di vedere, di percepire la
realtà,
di comprenderne l’essenza – tutti quei piccoli e grandi elementi che ne
formano il valore, materiali e immateriali, magici, forse, o quanto
inconoscibili
all’intelletto umano tarpato dal fango del pantano nel quale confluiva
e stagnava l’ordinaria vita – come acqua pura, in principio, ma poi
inquinata
dal liquame – sì, come quel torrente spumeggiante e poi placido,
e laggiù verso la grande città, purtroppo…
E c’era bisogno di morire per
riscoprire
tutte queste semplici, grandi cose! – egli ancora pensò,
ponendosi
le mani a coprire in parte il volto come per una improvvisa cognizione
di vergogna, di autocommiserazione… Era un privilegio dei morti la
possibilità
di comprensione profonda della verità della vita e del mondo? Ma
che serviva ad essi, giacché morti erano – appunto, non
più
nella condizione di cambiare, di migliorare e migliorarsi, di
progredire?
Pareva ad egli che in tutto ciò si sospendesse una ancor
più
grande e incomprensibile assurdità che nella sua vicenda di
morte;
o forse – molto più semplicemente – bisognava soltanto in vita
veramente
vivi, nella carne e nello spirito, e non soltanto nelle solite azioni
quotidiane
comandate dal mero bisogno proprio – in parte – ma soprattutto
altrui,
di quelli che “comandavano” veramente… Giusto come aveva pensato
poc’anzi:
vivo biologicamente, ma morto spiritualmente, così egli si era
lasciato
passivamente ridurre! Doveva meravigliarsi che la propria ombra non
l’avesse
già abbandonato da ancor più lungo tempo!…
Restò immobile, ancora
assorto,
rapito da quella girandola di nuove comprensioni che, come meravigliose
fioriture primaverili in un campo all’apparenza ancora indebolito dai
rigori
invernali, spuntassero a richiamare e glorificare l’essenza più
bella e pura della vita, ed egli ad osservarle con negli occhi del
cuore
e dell’anima una infantile meraviglia, un incredulo stupore verso
qualcosa
che mai si era immaginato come tale ora fulgidamente appariva… Proprio
come un bambino che osservasse tanti giocattoli al di là della
vetrina
d’un negozio – bellissimi, favolosi, ma comunque oltre quel vetro,
lontani,
all’apparenza irraggiungibili, e che all’improvviso si ritrovasse
quegli
stessi meravigliosi balocchi in casa propria, senza aver mai saputo
della
loro presenza ivi…
Se solo avesse ancora potuto
giocare
un poco! Ritornare in vita, in qualche maniera – alla vera vita, piena,
completa, virtuosa! Se solo avesse potuto farlo!… Ritornare alla vita,
colmarne il tragitto di purissima energia, illuminarlo delle proprie
azioni!
Agire da persona veramente viva, compiendo anche soltanto parte di
quelle
cose che mai aveva avuto il coraggio e la volontà di compiere;
dare
un significato nobile al proprio tempo trascorso tra i mortali – che
serviva,
altrimenti, la vita? Soltanto ad “appesantire” questo povero pianeta,
farlo
sbandare nello spazio, trascinarlo verso una oscura e terribile rovina!
Si sarebbe distaccato dalla
massa
– egli pensò, sicuro d’una risoluta vigoria e vitalità
che
gli pareva impossibile d’avere ancora in corpo, ora che era morto;
avrebbe
agito e prima, come giusto, avrebbe pensato, si sarebbe sforzato di
comprendere
l’essenza delle sue azioni quotidiane, così da migliorarle,
arricchirle,
se possibile; sarebbe stato vivo, insomma - non ci voleva molto – vivo,
veramente vivo… Realmente la vita era l’arte prima e più pura,
l’unica
e vera sacralità a disposizione dell’uomo: così egli
aveva
letto da qualche parte, su un libro forse, non ricordava…
Già, avrebbe letto
molto
di più, se fosse ritornato in vita…
Il Sole aveva già
cominciato
a discendere verso la sua serale dipartita; tra poco avrebbe aggiunto
quelle
lontane colline ad occidente, incendiandole di chissà quali
meravigliosi
colori; il cielo era ora di un celeste tenue, quasi eburneo,
limpidissimo,
e insieme all’aria fresca donava una intensa sensazione di purezza, in
contrasto – ancora – con quella cappa grigiastra, laggiù, che
nella
sua scura densità nascondeva le forme della grande città.
Sulla parte alta di quella triste cupola di veleno la luce solare
stendeva
già un velo dorato, quasi volesse la Natura coprire, nascondere
la bruttura infamante per tutto il paesaggio d’intorno…
Dallo spiazzo adiacente alla
grande
e trafficata strada, nel quale si era fermato, si distaccava una strada
campestre, sterrata, che passando attraverso un prato ancora acceso da
una brillante erba verde si inoltrava poi in un bosco di alti alberi
dalle
grandi chiome. Carlo Prumirni s’incamminò adagio per quella
stradicciola,
infastidito dal rumore costante generato dal traffico sulla strada;
desiderava
un poco di pace, di silenzio, dacché si sentiva quasi
frastornato;
nuovamente pensò su come fosse bizzarra quella sua condizione di
defunto, di anima vagante in attesa di chissà che… Ma tant’era,
v’era solamente attendere il corso degli eventi sovrannaturali…
Notò, in un angolo nei
pressi
del quale lo spiazzo si restringeva a formare la traccia sterrata nei
campi,
qualcosa che lo irritò molto – e ancor più nella
consapevolezza
che, in vita, la stessa visione non gli avrebbe causato altro che una
risata,
forse un vaga, sommessa e sconnessa sensazione di impaccio: un cumulo
di
immondizia, di spazzatura varia – cartacce, stracci unti, pezzi di
legno
e di ferro corrosi ed arrugginiti dagli agenti atmosferici, carcasse di
pneumatici e affinità di varia e ammorbante natura - sparsa
contro
alcuni arbusti e posizionato in modo che dalla strada non si potesse
vedere;
spostato verso questa, a solo tre, quattro metri, un cartello intimante
il divieto di scarico rifiuti: i trasgressori – esso recitava -
sarebbero
stati puniti a norma di legge…
Bisognava veramente morire per
comprendere
tutta la demenza dell’umanità contemporanea!…
La terra nei pressi del
sozzume
era scura, ammorbata dalla puzzolente giacenza – e ancor più
dall’idiozia
degli sconosciuti che di essa avevano lasciato ottima e orribile prova;
e brividi freddi avrebbero scosso la schiena di qualsiasi individuo
dotato
di normale coscienziosità nell’osservare, a solo pochi metri,
oltre
alcuni bassi cespugli, i campi coltivati probabilmente con piantagioni
destinate al consumo…
Egli si guardò intorno
un
poco… Si accorse d’una cassa in legno, coperta da alcuni bassi rami,
apparentemente
intatta – forse contenente un qualche grosso armadio e poi lì
abbandonata,
insieme all’altro pattume. Con risolutezza, decise di riporre, per
quanto
possibile, almeno parte dei rifiuti entro la stessa: troppo irritante
era
la visione di essi in quell’angolo di natura bella ed armoniosa, troppo
“umano” – nel significato che aveva deciso di apporre a quel termine
dopo
le riflessioni che, in quelle ore, aveva compiuto – lasciare che tutto
rimanesse nello stato di fatto… Ecco, questa era certamente una cosa
che
avrebbe dovuto fare da vivo, e che, in un anelato ritorno alla vita,
avrebbe
di sicuro compiuto! Non poteva essere un motivo valido che, in quanto
morto,
egli dovesse rimanere indifferente a quella situazione: anzi, il
menefreghismo
era giusto una dote dell’uomo vivo… Eppoi, forse, era ancora in tempo a
nobilitare – anche solo in minima parte – la sua esistenza, prima che
qualche
giudizio sovrannaturale – o chissà cos’altro di ciò che
gli
sarebbe spettato d’ora in avanti - giungesse a decretare il suo destino
nell’aldilà…
Prese a riporre gli oggetti
sparsi
sullo spiazzo nella grande cassa: il problema non si sarebbe risolto,
ma
almeno lo avrebbe concentrato un poco di più, rendendolo
più
facilmente eliminabile nel caso che qualcuno se ne fosse finalmente
accorto
e avesse deciso – bontà sua e del mondo intero – di porvi
rimedio…
Provò subitamente un moto di gioia, di felicità,
nell’eseguire
ciò che si era prefisso: se pur morto, si sentiva utile,
propizio
non certo per sé ma per gli altri, per quel piccolo pezzo di
mondo
sfregiato dall’inettitudine di chissà chi… Ed intento al lavoro
in corso, non sentiva più nemmeno il rumore della strada, del
traffico,
del mondo teoricamente civilizzato ma dalla cui presunta civiltà
nessuno sapeva poter fermare piccoli e grandi scempi come quello,
riposti
in silenzio e di soppiatto nell’ombra dei grandi riflettori illuminanti
la gloria del progresso – e abbaglianti gli occhi di chiunque - e che
forse
tra secoli, forse tra poco, forse già ora, sarebbero divenuti
definitivamente
incontrollabili…
Eh – rise egli ancora con
amarezza,
bisognava proprio morire per capire tutta questa semplicità…
Si voltò verso il Sole,
ormai
basso sull’orizzonte ma che pareva voler donare tutta la sua ultima,
sfavillante
vigoria di luce e di calore a quello spiazzo, ad aiutare l’uomo con il
soprabito un poco sporco e sgualcito che, risolutamente, continuava a
ripulire
dai rifiuti il terreno…
Vi era ancora molta luce,
anche
se già il cielo, verso le colline e i monti più dietro,
cominciava
a scurirsi, divenendo d’un meraviglioso color cobalto sfumato d’oro,
profondo
e purissimo nel tono. Le ombre s’allungavano, mescendo ogni cosa
d’intorno
come a voler ribadire l’assoluta armonia tra ogni elemento vitale, in
fondo
d’unica sostanza, di unica costituzione, e la natura ne accoglieva le
forme
disegnate dal Sole e tremolanti di energia e di ardore, prima che la
notte
catartica giungesse a rinnovare la forza del meraviglioso prodigio
denominato
vita…
Carlo Prumirni si
chinò a
raccogliere un pezzo di metallo, forse il coperchio arrugginito d’un
fusto
di quelli contenenti dell’olio per motori – aveva una scritta sbiadita,
ma l’ombra scura gli impediva di leggere e capire cosa realmente fosse…
Di colpo di rizzò.
Osservò
verso terra, poi il Sole, poi ancora in terra e il Sole e in terra…
La sua ombra! Era la sua ombra
che
copriva e oscurava il suo lavoro… Era ritornato a possedere l’ombra! Si
scostò, fece qualche passo intorno, saltò avanti, corse
un
poco indietro: senza dubbio, dai piedi si staccava la lunga figura
scura,
che poco avanti si mesceva con quella dei cespugli, degli alberi e
d'ogni
cosa vicina…
La sua ombra…
Tremante, come colpito da un
improvviso
e potentissimo fulmine, s’immobilizzò, in mezzo allo spiazzo, il
viso rivolto al cielo come incantato dalla visione d’un qualcosa di
inimmaginabile.
Il Sole scese, scese ancora,
illuminò
di favolosi toni infuocati l’orizzonte intero, coprì d’un velo
color
oro e rosso sangue il paesaggio, come spargendo d’intorno innumerevoli
diamanti riflettenti la luce indescrivibile e che rendevano
preziosamente
brillante ogni cosa, come parte d’un regno fiabesco senza alcuna
impurità
possibile… Poi toccò la linea dolcemente ondulata delle colline
laggiù, oltre la piana, appoggiandosi all’apparenza, mescendosi
con la Terra in una nuova manifestazione dell’unione tra l’elemento
terreno
e quello celeste, sublime – scendendo ancora, sempre più,
scomparendo
infine oltre l’orizzonte e lasciando il cielo, fin verso lo zenit,
intriso
intensamente d’indescrivibili colori, toni e sfumature, mentre
nell’altra
metà – verso i monti – già le prime stelle, quelle di
maggior
intensità luminosa notturna, stavano accendendosi ora
flebilmente,
ma via via sempre con più vigore. La pace più assoluta
calò
su ogni cosa, come in un immenso teatro dopo una spettacolare e
sfolgorante
rappresentazione, e solo il canto degli uccelli sulle chiome degli alti
alberi restava a musicare tutta la meravigliosa intensità di un
momento sensazionale…
Carlo Prumirni sorrise appena
appena.
L’ombra stava svanendo – ma questa volta con le altre d’ogni cosa,
assorbite
dalle tenebre calanti; egli si sentì come mai prima in armonia
con
il mondo, con la vita. Era in vita, nuovamente, non era morto, forse
non
lo era mai stato effettivamente – biologicamente insomma,
chissà:
ma lo spirito, ora, era vivo… E come era bello constatarlo!…
Ma non sentiva di dover
esplodere
in alcun moto di sconsiderata felicità, di giubilo forsennato
che
un evento incredibile ed assurdo come tutto quello di cui esso era
l’ultima
manifestazione poteva pure giustificare… Qualcosa di grande, ed
estremamente
profondo, intenso, immenso era successo, quel giorno: qualcosa oltre
ogni
materialità, qualcosa di veramente e genuinamente miracoloso,
qualcosa
per la cui preziosità infinita v’era bisogno d’un nuovo tempo,
d’una
nuova vita…
Guardò verso la
città,
le cui luci si confondevano e si sbiadivano nella consueta cupola
venefica
ora ben più oscura di poc’anzi; mille pensieri, immagini,
visioni,
comparivano e scorrevano nella mente – alcune nitide, altre meno, in
generale
confuse, entropiche nei colori, nei toni, nei tratti, come se fossero
illuminate
da una pallida luce, debole e cagionevole di luminosità – o come
ancora egli le potesse percepire attraverso un velo di foschia,
estranee,
lontane, a guisa di certi ricordi che la ragione ritiene bene tenere a
memoria soltanto per evitarne, in futuro, una nuova manifestazione
nella
realtà… Guardò la sua persona, la figura ormai avvolta
nel
fosco della dolce sera, si vide come il protagonista di un inevitabile
evento, ripercorse tutti i pensieri elaborati fino a quel punto.
Intorno, pareva che il mondo intero restasse in una sorta di
sospensione,
in uno spazio dal tempo fermo, o certo enormemente rallentato – in una
dimensione d’incontro tra ogni essenza formante il principio infinito
della
vita e della morte; pareva che l’intorno tutto attendesse qualcosa
dall’uomo
assorto, sembrava che il silenzio diffuso lo ascoltasse, in qualche
modo,
dacché probabilmente – egli pensò – solo le voci, i
suoni,
i rumori erano silenziosi, ma non il cuore, non l’anima e lo spirito e
gli spiriti e le essenze dell’intero creato…
Osservò verso la
stradicciola
sterrata che serpeggiando tra i campi s’inoltrava nel maestoso bosco in
fronte e poi oltre, verso le colline, probabilmente risalendone i
fianchi,
i pendii, salendo alle montagne più alte – salendo verso il
cielo,
forse, verso le stelle che già a miriadi scintillavano
meravigliose
nel cielo sempre più cupo e oltre… Forse, ancora oltre…
Egli si tolse con rapide
pacche
la polvere sul soprabito; lo spiazzo prima sporco d’immondizia ora
assumeva
un aspetto più decente, o perlomeno più accettabile
all’animo
virtuoso…
Fece un lungo sospiro, chiuse
gli
occhi un poco inumiditi da una parvenza di lacrime… Poi
s’incamminò,
verso il folto bosco; in breve, scomparve nell’ombra.
L’appuntato picchettava la
penna
sul tavolo di grezzo legno scuro, rovinato sulla superficie da
innumerevoli
graffi e segni – indeciso, all’apparenza, su cosa scrivere sul foglio
del
rapporto in fronte, mentre il maresciallo sciorinava le consuete
domande
del caso. La donna, seduta accanto alla scrivania, pareva svogliata nel
racconto, donando l’impressione di avere ben poco da dire – sconcertata
ma non troppo, addolorata, ma anche passiva, forse, verso il fatto
imprevisto
accaduto, al momento incapace di una qualche reazione… Nella piccola e
spoglia stanza al secondo piano si sospendeva un particolare lezzo –
come
al solito, un poco di chiuso, un poco di fumo, e il giovane militare
seduto
alla scrivania sembrava più attento a comprendere la causa di
quell’odore,
piuttosto che all’ascolto del racconto frammentato e indeciso della
donna
la cui voce forte ma irresoluta echeggiava leggermente tra le pareti…
- Mi perdoni, signora, ma
continuo
a non capire…
- Le ripeto, signor…
maresciallo,
giusto?… Che c’è da capire non lo capisco nemmeno io, voglio
dire…
Io non capisco perché mio marito si sia alzato che era notte,
forse,
o forse le prime luci dell’alba… Sì, mi sembrava che già
un po’ di luce… Ecco, però io aprii gli occhi così, poco,
tanto per aprirli… Vidi che s’alzava, ma penso di essermi
riaddormentata
subito, convinta che se ne andasse al bagno…
- Ma per che motivo si
alzò,
allora, il signor… Prurimmi…
- Prumirni!
- Che nome strano… Beh,
insomma,
si sarebbe alzato e sarebbe scomparso così, di botto?
- Io non so… La sveglia certo
non
suonò… Forse a lui parve di sentirla suonare, anche a me, a
volte,
mi pare di sentire il suono della sveglia, ma è in sogno, poi mi
desto e m’accorgo che è soltanto un’impressione…
Il maresciallo sbuffò,
incrociando
le braccia e appoggiandosi alla scrivania con il fondoschiena. Poi si
voltò,
prese il foglio in fronte al giovane appuntato, che osservò il
proprio
superiore con un’aria di svagata astrusità circa cosa avesse
dovuto
in effetti scrivere del racconto udito. Ed il foglio del rapporto
conteneva
ben poco: il maresciallo con biasimo lo ritornò nervosamente al
militare, indicandogli con un eloquente gesto che la firma, su quel
documento,
sarebbe stata la propria, mentre lo sguardo della signora seduta
accanto
era da qualche momento inespressivamente fissato verso il pavimento.
- Dunque… - riprese il
graduato,
rizzandosi nuovamente sui due piedi - … Vediamo di riassumere un poco
il
tutto… Il soggetto, Prumirni… Carlo, si sarebbe alzato alle prime luci
dell’alba del giorno indicato in anticipo rispetto all’orario osservato
negli altri giorni e senza apparente motivo; si sarebbe lavato,
vestito,
insomma tutto quello che abitualmente faceva alla mattina prima di
recarsi
sul posto di lavoro; sarebbe uscito dalla sua abitazione sita
all’indirizzo
prima citato, indi sarebbe svanito nel nulla… Mai giunto sul proprio
posto
di lavoro e nemmeno da alcuna altra parte…
La signora Prumirni annuiva
meccanicamente,
sempre tenendo reclinato il capo verso il basso; l’appuntato si
affrettò
ad appuntare le parole ben scandite con un tono vocale alto dal
maresciallo,
finché questi smise la narrazione, e nel silenzio
improvvisamente
profondo si potè udire soltanto il tenuissimo scricchiolare
della
penna sul foglio… Egli parve perdersi un attimo con il proprio sguardo
nel vuoto del locale, le braccia incrociate dietro la schiena; poi si
voltò,
adagio, chinandosi verso la donna seduta e distratta, rivolgendosi ad
ella
con un tono di voce ora fievole, quasi un bisbiglio…
- Signora… Mi scusi se… Lei mi
capirà
se le chiedo… Non è che ci fosse la possibilità che il
Prumirni
avesse una qualche relazione extra-coniugale…?… Mi perdoni…
La donna parve ridestarsi
improvvisamente
e bruscamente dall’apatia nella quale giaceva, coe per un repentino e
nervoso
scatto d’orgoglio…
- Chi? Mio marito? – disse
ella,
con una voce finalmente decisa e caparbia, ed accompagnando la reazione
con un gesto eloquente della mano destra... – Ah, figuriamoci, un’altra
donna!… Ma se quello a momenti non sapeva neanche di essere vivo!…
Il maresciallo si rizzò
nuovamente
dritto, quasi sorpreso da quella reazione così determinata,
allontanandosi
d’un passo dalla donna e tornando pensieroso; il giovane appuntato
riprese
a picchettare la penna sul grosso tavolo, annoiato, lo sguardo buttato
oltre l’unica piccola finestra del locale, dalla quale, in lontananza,
attraverso il velo bigio della perenne coltre di smog, si poteva
intravedere
la vaga linea ondulata delle colline oltre la pianura…
La spoglia stanza si
colmò
ancora di un profondo silenzio.
(Calolziocorte, 17 Gennaio
2002)
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