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Il Congresso dei Poeti Estinti
 
 

Le strade sudavano tutte d’oscuri timori,
E pioveva angoscia, mescendosi nel fango
Ove tremavano i piedi degli autori –
Vecchi nobili d’un ormai perduto rango.

E la Luna tondeggiava il suo biancore
Allungando quelle ombre oltre il tempo;
Le stelle – chissà come – di nessun luccicore
Brillavano, languide e inquietanti al contempo. 

L’un s’alzo nel fosco e disse: “Signori!
Di che ci lamentiamo? Del nostro vuoto funerale
O degli intensi tanto quanto mai compresi ardori
O del destino nostro, comunque infernale?

In fondo questo era il comune desiderio:
Con mille grazie abbiam tornito la nostra voce,
E poi rimata, e poi cantata: fu spesso un putiferio,
I nostri credi dal legno della vita cavarono una croce”.

Un altro si rizzò con gran fierezza antica:
“E colpa aver dobbiamo? Questa e’ ingiustizia,
E’ un sopruso! Che dica il mondo quel che dica,
Sol perché cantammo noi bellezza con perizia

Ci diedero dei folli, giullari senza speranza,
Finché qualcuno disse – Non era in fondo male!
Peccato fossi morto! Che vengan con possanza
Al diavolo, laggiù, farei vedere loro che cosa invero vale!”.

“Suvvia, miei cari estinti” disse un terzo,
“Almeno noi sapemmo vivere in bellezza!
Malvisti, poi dannati, sul cuore dello sferzo
Il segno sì profondo dell’uman stoltezza,

Ma vivi, certo vivi, in sella a nostra vita!
Giammai viver vorrei come granello nel deserto,
In moto sol con il più teso vento, e smarrita
L’anima, in un gran labirinto senza sbocco certo!

Giammai, giammai! Vivemmo nel dolore
E con dolor morimmo, ma vivemmo! Le stelle
Illuminarono il nostro cuor colmo d’amore,
E avemmo poi le Muse eccelse qual sorelle;

Volammo oltre il cielo, fino al sogno,
E intuimmo ch’è la realtà la massima utopia:
Così noi la cantammo, e il nostro cuor indegno
Fu ritenuto, animato da bizzarra disarmonia.

Bene! Così noi ci elevammo sopra il pantano
Di questo immondo mondo, di debolezza
Nostra forti: a un sogno utopico e assai lontano
Ci siamo accostati, noi soli abbiamo vinto la stoltezza!”

Le voci rincorrevano altre voci, nella città
Deserta e buia rappresa nella notte ove la Luna
Fissava nel suo avorio la gran meschinità
Di mille ombre incapaci di scovar fortuna

Che per le vie melmose andavano guardinghe
Nulla udendo, nulla vedendo, neppur la vita
Loro: ed i poeti estinti ancor vociavan lor arringhe
Senza assenso - la notte su di essi era infinita.
 

(Calolziocorte, 24 Ottobre 2000)
 

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