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Idillio
di Primavera
I.
Allorquando i maestosi
monti, le
pareti imponenti, i nevai e i ghiacciai scintillanti, gli alti prati
vasti
e ondulati, si trovavano nel subbuglio di quel limbo posto da Madre
Natura
tra i rigori tenebrosi dell’Inverno e l’approssimante prima gaiezza
policromatica
della Primavera - primevo tripudio di tonalità rinascenti quali
quelle così ben espresse, a mirabile esempio d’arte, nei
paesaggi
di montagna dalla grande mano di Giovanni Segantini - in quel clima non
più troppo fresco ma ancora non giudicabile come caldo - quel
tiepido
spiro diffuso così simile al bacio delle labbra d’una splendida
fanciulla ricevuto nel mezzo d’un’algida serata dicembrina - abbastanza
caloroso da ben scaldare tutte le membra, non solo di semplice calore,
e renderle vibranti di passionale gioia per ciò, come
un’improvvisa
esplosione d’energia vitale, quale era appunto la Primavera dopo il
digiuno
invernale - veniva piuttosto difficile andare per cime e pendii d’alta
montagna - gran passione e diletto di Marco Alberici da sempre, da
quando
il padre Claudio gli decantava le bellezze alpestri dai percorsi di
innumerevoli
sentieri - dacché le condizioni certo non potevano definirsi
ottimali,
il meteo spesso irriducibilmente imprevedibile, il bianco manto nevoso
molliccio e instabile, anch’esso incerto tra il permanente gelo
notturno
e il già forte calore del mezzo del giorno, e ogni elemento
naturale
che pareva essere in scompiglio, tutto preso dallo svestirsi dei
pesanti
abbigliamenti naturali spenti e protettivi per muoversi ad indossare
quelli
appunto più leggeri e colorati salutanti il nuovo ingresso della
bella stagione... Si avventurava allora, Marco, con una
particolare
gaiezza che frizzava nell’animo, in quel dedalo di viottoli e
stradicelle
che tagliavano le stupende campagne poste giusto dove le linee dei
crinali
lussureggianti di ogni rigogliosa vegetazione, provenienti dalla
pianura
e dalle basse valli, prendevano a ondularsi in maniera pronunciata, tra
colline, vallette, praterie e dolci pendii, finché, appena
sopra,
esse s’impennavano decisamente verso l’azzurro cielo, sempre più
ripide e rocciose, fino a diventare madri possenti delle arditissime
creste
degli alti picchi, quivi lasciandosi ricoprire dagli abbacinanti
mantelli
delle nevi eterne. Si deliziava di queste passeggiate in ambienti
sì soavi e estasianti, pareva nutrirsi di quegli olezzi gentili
e delicati che provenivano dalle prime, prorompenti fioriture, che
punteggiavano
di brillanti colori i prati della vallata, che parevano divenire
d’incanto
dei verdissimi mantelli vellutati ove una favolosa mano avesse gettato
miriadi di pietre preziose dalle più sfavillanti
tonalità:
giungevano alla sua mente i ricordi dei lunghi pomeriggi d’infanzia,
nei
quali, insieme al padre o a qualche parente maggiore, s’inoltrava per
quel
labirinti di tracciati vari dal gusto antico, correndo all’impazzata
nella
felicità più ampia del gioco, guidata dalla fantasia e
scevra
da qualsiasi grave pensiero.
Ancora, oggi, egli sentiva di
rigenerarsi
in quelle fantasmagoriche oasi di Madre Natura: ognuno di quei luoghi
parevano
avvolti da una magia di vita potente e pulsante. Nel cammino, a volte
spedito,
altre volte calmo e pensoso, osservava con minuzia tutto ciò che
di bello gli si presentava davanti, quasi che l’occhio avesse oramai
acquisito
la capacità di discernere al primo sguardo l’elemento di alto
valore
estetico da quello di più basso e volgare valore, e cercasse di
trarre dalla bellezza senza confini del paesaggio naturale i più
disparati spunti da tradurre poi in idee per ogni azione della vita
quotidiana:
per un semplice pensiero, per l’arredamento della propria dimora, o
l’acquisto
di oggetti interessanti, o ancora l’ispirazione per la creazione d’un
qualcosa
di artistico.
Particolarmente, poi, in quel
periodo,
la contemplazione della bellezza della Natura, o di qualsiasi altra
cosa
che si potesse fregiare di tale altissima qualità, gli poneva di
ritorno in mente tutte quelle belle chiacchierate sul valore della
bellezza
che spesso sosteneva con passione in casa con gli ospiti o in compagnia
di qualche caro amico: come se quei vibranti dialoghi che amava tanto
scambiare
– quasi un reiterato omaggio a quelle bellezze che egli tanto aveva a
cuore
- fossero stati per lui ogni volta una sorta di liberazione, uno
sfogarsi,
finalmente con persone nobilmente poste sulla stessa propria lunghezza
d’onda, finalmente capaci di comprendere l’insieme dei suoi pensieri,
ed
anche un allontanarsi dalla piattezza e dalla grettezza che
caratterizzava
la maggior parte delle persone con le quali capitava di avere a che
fare,
soprattutto estrinsecate nelle di loro opinioni sulle virtù, i
valori
e le nobiltà che avrebbero dovuto caratterizzare l’essere umano
nel pieno della propria essenzialità, ma che in quegli
individui,
indifferentemente maschi e femmine, parevano soltanto pesanti fardelli
da abbandonare al più presto per far posto alle stupidità
varie e assortite proposte e imposte dalla società contemporanea.
Quei discorsi, invece, egli
amava
rimembrare, quasi per ripassarli e tenerli sempre vivi a guida eterna
della
propria vita, come se dalle anime rilassate e insieme concitate le
più
pure volontà avessero fatto scaturire un illuminato codice di
vita,
un compendio di aneliti preziosi e necessari; e tornavano, essi, chiari
e possenti soprattutto nella bellezza dell’ambiente naturale, in quel
periodo
esaltato nella sua sfavillante eleganza dalla rifiorente
vitalità
primaverile: s’inebriava tra quei viottoli, quasi sentendosi mescere
con
l’intera Natura, quasi ritrovando quella naturale origine che è
propria d’ogni uomo, amava osservare il corso del ciottolato che
curvava
nascondendosi dietro un ciuffo di giovani castagni, poi scendeva verso
un’idilliaca valletta nella quale s’osservava l’impalpabile nebbiolina
di vapore acqueo sollevatasi dalle impetuose acque di un piccolo
torrentello,
irruente nello scrosciare di mille cascatelle perché ben
rifornito
dalla fusione delle nevi: poi, superato un grazioso ponte a due piccole
arcate in mattoni di cotto rosso, risaliva inoltrandosi in un ombroso
cespuglio
di peschi e tigli selvatici, ove alcuni grossi e lisci massi, posti
lì
chissà quanti millenni fa dal movimento di antichissimi
ghiacciai,
facevano come da panche rocciose e invitavano alla sosta e alla
riflessione
nell’idillio naturale. Il tutto – per egli amante della bellezza
come dell’arte- massima rappresentazione umana della bellezza - pareva
veramente una favolosa tela del miglior Piccio, nell’ardita e focosa
sua
rappresentazione della Natura, oppure il trionfo di quei luminosi
valori
che accompagnano i più bei lavori paesaggistici del Corot.
Così passeggiava Marco
Alberici,
con immensa, voluttuosa gioia in cuore e nell’anima: e sempre era
così,
in quegli idilliaci ambienti, tanto che, spesse volte, la buona
predisposizione
di spirito e l’incondizionato amore ch’egli provava per la Natura e le
sue bellezze sortivano uno strano effetto al cuore, una sorta di
indefinibile
eccitazione, quasi una voglia di passione e di voluttà
continuamente
crescente e irrefrenabile, una improvvisa ebbrezza sensualmente
estetica,
come se il purissimo paesaggio arrivasse a rappresentare una sorta di
ideale
alcova naturale, un luogo di piacere e di ardori intensamente
passionali,
nel quale perfino i più bramosi, provocanti e lussuriosi istinti
di godimento del corpo di una donna potessero consumarsi nel massimo
incendio
dei sensi e subito venir purificati dall’accondiscendente cornice della
grande Madre naturale, accogliente tra i suoi preziosi tesori. Come un
incantesimo, la mente creava immagini di splendide fanciulle sorgenti
nel
pieno della loro luminosa grazia da cespugli in fiore, a guisa di
bellissimi
spiriti elementali in perfettissima e affascinante forma di donna, con
le quali abbandonarsi al trionfo dei sensi sul soffice e accogliente
manto
di fine e ancora bassa erba, verdissima più che la preziosa
opale
finemente mesciata con il nichel allo stato puro, in una sorta di
doppia
apoteosi, del corpo e dello spirito, una duplice unione, dei due corpi
focosi nell’impeto del più passionale ardore, e di entrambi,
insieme,
con il grande corpo primigenio, la Natura alla quale ritornare sempre e
comunque, e ancor più in quei momenti di completa esaltazione
d’ogni
parte
della propria essenza personale, per grazia di bellissima e
sensualissima
donna dal fascino immane impresso nella fremente fantasia. Ecco, gran
sensualità
egli vi trovava in quell’idillio naturale, e facili quindi venivano le
genesi d’immagini di irresistibile voluttà in quello stato
sì
perfetto.
II.
Così pensando, la
mente rapita
in mille meditazioni di piacere e di grazia estetica, il ventottente
Marco,
scapolo e di lontana e smarrita estrazione nobile, godeva della grande
calma che gli sapeva infondere il paesaggio, unita ad una pulsante
energia
di vita. Prese la via che lo riportava verso casa, quella che,
tagliando
a mezza costa i radi filari di viti giusto poche decine di metri sopra
il villaggio, si ricongiungeva al viottolo che saliva verso gli alpeggi
e le più alte montagne, appena sopra il cancello d’ingresso al
piccolo
giardino familiare.
Nell’approssimarsi ad esso,
lontano
qualche decina di metri, e in moto di salita verso di lui, riconobbe
una
fanciulla, carissima conoscente, pur se la distanza ancora non
permetteva
di arguire finemente i tratti peculiari del viso. Ma la riconobbe, per
vari motivi: vuoi per una certa e originale postura, ch’egli, quando
vedeva
la creatura che la originava per il paese o in altre occasioni,
riteneva
assolutamente elegante e gentile, vuoi per quella camminata sempre
calma
e posata, quasi che qualsiasi accenno di fretta potesse scomporre e
inquinare
quella naturale grazia, e vuoi, in più, per un certo non so che,
un’indefinibile, indecifrabile, arcana attrazione che sempre egli
sentiva
verso di lei, molto soffusa, leggera ma sempre presente, forte pur se
evanescente,
come il bel sogno resta nella mente di chi lo ha vissuto pure per molto
tempo dopo il risveglio, al contrario dell’incubo che la memoria tende
a cancellare subitamente con forza e decisione: e la di lei immagine,
eternamente,
stazionava a guisa di fondamentale arredamento mnemonico sulle mutevoli
pareti della mente, discretamente celata dietro i veli dei quotidiani
pensieri
eppure sempre presente, soave, leggera, delicata, rivestendo come un
preziosissimo
e vellutato parato il perimetro ideale del suo intelletto.
Si chiamava Federica Serassi.
Si
conoscevano da tanti, tantissimi anni, per la conoscenza che
intercorreva
tra le rispettive famiglie, ma mai s’erano frequentati in qualche modo
più assiduo che nell’attimo dell’incontro fugace per la strada,
o solo poco più, e sempre in compagnia d’altri, mai soli, mai
nella
possibilità d’usufruire di quell’ambito di quiete di spazio e di
tempo, senza disturbo altrui, quegli attimi ove l’anima ardente
dell’uno
ode il battere forte del cuore dell’altra, ove le sensazioni crescono e
si trasformano in passioni ardenti… Mai se non per una sera,
qualche
mese addietro... Era una creatura leggiadra, assai originale ed
elegante
negli usi e intelligentissima, dotata d’un grande sense of humor,
capace
di porre sempre avanti tutto una gran simpatia ed un sorriso
simpaticissimo,
ed esercitando quindi quel rarissimo dono, di cui così pochi si
possono fregiare, del mettere a proprio agio chiunque, persino colui o
colei che ad ella si fosse approssimata per motivi di collera.
Alta
più che la norma delle altre donne, slanciata nell’angelica
figura,
dal fisico asciutto e deliziosamente sinuoso e formoso, i suoi capelli
castano chiari, sempre tagliati con grande gusto e creatività,
facevano
da ideale e un poco sbarazzina cornice ad un viso dolcissimo, un
soavissimo
ovale quasi infantile nei tratti d’immensa grazia, gentile nelle gote e
nel mento, rosato da un’epidermide che pareva doversi rompere da un
momento
all’altro, tanto appariva delicata, quasi bianca come polvere di Luna,
e per ciò luminosa, raggiante, sulla quale il minimo rossore
emozionale
s’evidenziava nettamente: ricordava a Marco quel viso di fanciulla
frutto
di un misto tra falso candore e languida sensualità che
impressionò
per sempre sulla tela Jean-Baptiste Greuze nella sua Brocca rotta. Su
tal
stupendo viso, s’aprivano appunto sorrisi affascinanti, trascinanti,
assolutamente
coinvolgenti al punto da risultare eccitanti, dipinti tra le sottili
linee
non troppo carnose ma assai perfette delle labbra, pastellate in una
tinta
delicatamente purpurea. Il corpo, bellissimo, sensualissimo,
formoso
e armonioso, raramente ella mostrava in abiti discinti, ma non certo
per
un modo trasandato e inelegante di scegliere l’abbigliamento, quanto
invece
per una sorta d’immensa modestia che la portava a non rendersi troppo
conto
della sua assoluta soavità ed avvenenza, a differenza di tante
che,
viceversa, senza avere adeguate qualità estetiche, si mostravano
come pavonesse in amore, altezzose e auto-compiacenti, ma in
realtà
ponendo in luce una ampia coda di difetti e volgari superbie. Con
lei, invece - altra grandissima virtù che possedeva con estrema
naturalezza - pur con normalissimi abiti di foggia quotidiana, la
bellezza
sembrava risplendere continuamente, infinita pur se assolutamente
discreta,
una sorta di aura d’incanto che la nascondeva e la proteggeva dal
cozzare
contro le volgarità di tutti i giorni, un delicato alone di
soffusa
luminosità estetica che in pochi attimi diveniva
incontrastabilmente
attraente, e fondamentale nello sguardo estasiato di chi aveva in
fronte.
S’avvicinava lentamente, con
quel
passo così lentamente elegante, i movimenti dei gentili piedi
quasi
studiati per risultare mai oltre le righe, un passo dopo l’altro su
un’ideale
linea d’altissima armonia dominante l’intero mondo: alzando il viso,
riconobbe
il giovane amico, e subito s’accese sul roseo e stupendo volto uno di
quei
meravigliosi sorrisi, ed insieme un’espressione che pareva, almeno agli
occhi del suo imminente interlocutore, di grandissima felicità e
contentezza per il prossimo incontro, luminosamente gaia, che fece
subitamente
fremere il di lui cuore. Marco si fermò a qualche metro
dall’ingresso
al giardino della propria dimora, e l’ombra posta sulla di lui fronte
dall’ampia
chioma dei pini del parco lo aiutava a contemplare la sopraggiungente
luminosità
della figura, e quel bellissimo volto: ancora, improvvisa, come
improvvisa
appare la calda luce del primo raggio solare che riesce a bucare la
spessa
coltre di nubi negli immediati momenti successivi allo scatenarsi d’un
fortunale primaverile, sentì sorgere dentro, e inondare le
membra
e il già palpitante cuore, quella particolare attrazione, quella
specie d’affetto illimitato, quel super-sentimento che banale sarebbe
stato
il definirlo mero “innamoramento”, e insieme sentiva i sensi scuotersi
violentemente nella considerazione delle immagini di bellezza e grazia
che gli occhi mandavano al cuore e alla mente. L’attendeva
giungere
con quell’ansia che provava l’antico oracolo sacerdotale nell’attesa
della
predizione proferita dal grande dio, dal potere soverchiante per la
vita
in dubbio, come se la sua stessa vita fosse ad una svolta ed entrasse
in
nuovo mondo di purezza e felicità ch’ella stava per donargli con
la sua sola, angelica presenza. Ma nonostante ciò, nonostante le
già incontrollabili girandole d’emozioni che ardevano nel
profondo
della sua anima riscaldando l’intera essenza, non poté fare a
meno
di notare, in fondo ai meravigliosi occhi di lei, tra quelle sfumature
iridee deliziosamente frutto d’una sintesi di toni verdi, blu e ocra a
creare pupille streganti, ipnotiche, tremendamente ammalianti, un
qualche
cosa d’inquietudine, una velatissima tristezza ch’ella pareva sforzarsi
di
mantenere celata all’occhio comune. Stranamente, quella anomala
sensazione,
nel cuore di Marco, aumentava a dismisura la sensualità di lei,
ed insieme l’attrazione irresistibile, e una grande volontà di
protezione
per quella figura troppo soave, bella ed elegante da lasciar che
s’inquietasse
per un qualcosa, da permettere che un addoloramento potesse ombrare la
purissima luce ch’emanava. Forse qualcosa le opprimeva
l’anima,
forse la cosa era legata a quel suo rapporto con un uomo piuttosto
particolare
e strano, in corso da qualche mese, per il quale già tempo fa
egli
voleva confessarle alcune inquietanti sensazioni che si sentiva dentro,
ogni qualvolta che li vedeva insieme, ma che poi non confessò
mai,
per una sorta di assoluto rispetto e di necessaria riservatezza verso
la
di lei vita e le relative scelte. Certo quell’uomo, nei primi tempi
della
loro unione, dava l’impressione di esser forse il tipico amante che
molte
donne avrebbero desiderato al proprio fianco per l’intera vita, pur
senza
mostrare un’apprezzabile bellezza ed eleganza, eppure qualcosa in lui
mostrava
una certa falsità, una fastidiosa e immotivata vanità e
ed
anche una non troppo velata ipocrisia. Non molto alto, dal fisico
robusto - anche sovrappeso all’apparenza - ed una quasi buffa canizie
la
quale ancor più poneva in risalto un naso leggermente adunco,
pareva
in certe visioni e sotto certe luci una di quelle figurette di secondo
e terzo piano che spesso si possono ritrovare nell’analisi degli
splendidi/inquietanti
sogni/incubi posti in pittura con eterna genialità da
Hieronymous
Bosch. L’aveva conquistata, evidentemente, ma altrettanto evidentemente
egli non s’era dimostrato quello che le primeve promesse amorose
ritenevano
di poter mantenere, oppure ella, comprendendo la probabile, temporanea
sbandata passionale che l’aveva portata tra le di lui braccia, ora
sentiva
tutta l’oppressione d’una scelta affrettata e sconsiderata,
pesantemente
calata come greve drappo sulla sua sempre attiva volontà di
gioia
e gaiezza. In alcun caso non vi era gelosia in lui, va detto,
tant’è
che egli, per quella strana sensazione d’unione che sentiva per lei
prima
esplicata, le augurava la massima felicità nella vita e con
qualsiasi
persona al fianco, gioendo nella visione dei suoi sorrisi svelanti una
stato fausto, e certamente il suo cuore avrebbe grandemente sofferto al
pensiero che ella, per qualche motivo, fosse in sofferenza per una
qualche
pena.
Si salutarono con grande gioia
reciproca,
ed entrambi, con spontanea naturalezza, e per quell’attrazione naturale
che anima due bocche vicendevolmente appassionate e anelanti l’un alito
dell’altra, fecero per avvicinare le labbra e baciarsi in segno
d’affettuoso
saluto, ma ella, d’improvviso, si trasse indietro.
“Scusami, è meglio non
farlo...
Sai, la gente...” e fece cadere nel vuoto quel suo tentativo di
giustifica,
il tono di voce rotto da una evidentissima emozione, palesata anche
dall’istantaneo
rossore apparso sulle graziosissime gote, gli occhi d’improvviso quasi
inumiditi da un velato accenno di tristi lacrime, ma un attimo dopo
già
nuovamente sorridenti. Marco accolse tuttavia con naturalezza quel suo
particolare comportamento, anche per non porla in un sconsiderato
imbarazzo,
data la gioia del momento, e la invitò a raccontarsi un poco a
lui,
sedendosi entrambi sul basso muretto che delimitava la strada in fronte
alla sua dimora, ove con il bel tempo e senza foschia, si poteva godere
di una vista stupenda sulla bassa valle, sulla vasta pianura e sulla
frastagliata
linea delle montagne poste al di là. Ma quelle brevi parole,
pronunciate
con quella voce giusto a metà tra il tono del folle ardore
passionale
e quello dell’eterna felicità e leggerezza d’animo, così
suadente e avviluppante, così leggera ed insieme eccitante, e
pur
se di diniego, bastarono ad accendere ancor più nel cuore del
giovane
amico il fuoco dell’attrazione passionale verso di lei, così
come
le secche braci di buona legna ravvivano rapidamente le fiammelle che
altrimenti
velocemente si spegnerebbero nel camino, estinguendo il vitale calore
del
fuoco. Ma genuino fuoco di passioni ardeva in lui, e già
parevagli
che quel rifiuto rappresentasse in realtà un assenso, un invito
solo rimandato a che fosse prestissimo la vittoria dei sensi, e la
breve
frase, unitamente alla voce che la pronunciava e all’espressione dolce
e delicata del volto di lei, erano già meraviglioso e indelebile
ricordo per sempre immagazzinato nella sua mente.
Nel mentre che si sedevano,
egli
faticava a staccare lo sguardo da Federica, dalla sua immane eleganza e
grazia, dalla sua delicatissima bellezza, eppure ancora sentiva in
qualche
modo il freno del rispetto per una sì gentile creatura e per la
sua attuale, contrastata scelta affettiva - freno che d’altronde sempre
era e con chiunque nel suo animo, improntato ai nobili virtuosismi
dell’educazione,
della raffinata gentilezza e del discreto garbo, valori così
all’apparenza
dimenticati dai moderni uomini... Ma la passione cresceva in lui,
e nobilmente filtrata dai valori di cui sopra, così ben impressi
nel suo modus vivendi, affiorava sulla superficie del cuore lentamente
ma inesorabilmente, con soave ma decisa forza, spingendo spiritualmente
le sue membra verso quelle delicate e aggraziate di lei, ed il cuore
colmo
di ardore verso il suo, a riempirlo parimenti dello stesso infinito
ardore.
Ella lo guardava quasi fissamente, mentre raccontava con ragionata
lentezza,
e con quel tono vocale sì meraviglioso scaturente dall’eterno
sorriso,
incitata dal di lui appassionato e interessato sguardo. E come se le
reciproche
menti fossero già in contatto, e in dialogo fluente e intenso da
sempre d’infiniti discorsi di genuina passione, per un magico
incantesimo
quale è quello che, nella pur sua semplicità e
microscopicità,
può smuovere montagne intere, e far accadere ciò che si
riterrebbe
impossibile che accada, nelle scambiate parole, nello stesso preciso
istante,
entrambi ricordarono quella sera di qualche tempo fa, quell’unico
momento
nel quale essi furono in qualche modo uniti, soli senza disturbo, quel
frangente ultimo prima ch’ella s’imbarcasse nella storia con lo strano
e ambiguo uomo: di botto, la di lui mente, a guisa di stella cometa
che,
avvicinandosi al Sole si faccia attrarre e poi, per effetto della forza
gravitazionale, si faccia spingere nello spazio, si fece spingere da
lei,
dalla sua estatica presenza nel grande spazio dei ricordi, a quella
sera
di fine dicembre, giusto qualche mese fa...
III.
“Ti ricordi?”
“Oh, sì, mi sono
divertita
tantissimo, quella sera...”.
“Già, anch’io, e
ricordo
benissimo quanto eri splendidamente elegante, e affascinante, tanto che
un poco mi vantavo di poter passeggiare per le vie in tua compagnia,
con
una creatura così bella e aggraziata.”
Sorrideva, ella, e il volto
gentile
baluginava di quella purissima luce che sa donare la gioia interiore,
con
leggerissime sfumature rossastre segno d’un gioioso e discreto crescere
dell’emozione sulle gote: “Esagerato, sei troppo adulante, non merito
così
tanti onori!”
“No, permettimi, li meritavi,
anzi,
meritavi mille volte più lusinghe, come ora d’altronde...”.
Ancora lei sorrideva, e il suo
soave
sguardo aveva preso a guardare fissamente quello del giovane amico,
senza
mai distogliersi, mentre la prima fresca brezza discendente dalle alte
montagne cominciava ad annunciare l’approssimarsi della sera, e il
quotidiano
addio del grande Sole, nello sfarzo imponente e magnifico
dell’infuocato
desio. Pareva, l’imminente spettacolo solare, nella girandola
d’incendiati
toni rossi e gialli che s’accingevano a far divampare del più
bel
fuoco l’intero orizzonte, l’immagine esteriorizzata dell’anima di Marco
Alberici, nella quale parimenti girandole di passione, mosse
dall’impetuoso
incalzare dei sensi eccitati, davano immenso calore a tutto il corpo,
ponendolo
in accesa ed ebbra vibrazione, e stimolavano assai la mente
all’abbandonarsi
completamente nel vortice delle emozioni.
Così, l’immagine
suadente
e bellissima di lei, seduta sul muretto a pochi centimetri dal cuore e
dalla mente di lui, si sovrapponeva a quella del ricordo vivissimo di
lei
in quella sera, altrettanto bellissima e affascinante, e l’analisi di
entrambe
le visioni raddoppiava l’emozione e la passione: sembrava che, nella
fredda
brezza di quel giorno sì prossimo alla fine d’anno, nella
città
semivuota e con i pochi in strada intirizziti dal gelo, la divina
Afrodite
avesse concesso le supreme grazie della bellezza e dell’eleganza
infinita
a lei e solo a lei, Federica Serassi, tralasciando chiunque altro: i
dolci
e lucenti capelli, solo un poco più lunghi di quanto non li
avesse
al presente, docilmente si muovevano nelle carezze del leggero
venticello,
e davano la meravigliosa sensazione che il suo viso, e le dolcissime
espressioni
che da esso scaturivano, fossero ancora più aggraziate e gentili
del solito, e più ancora affascinanti e attraenti. In
più,
lo stupendo ovale era leggermente impreziosito da un tenue maquillage,
composto da toni chiari ed esaltanti la luminosità naturale del
viso e degli occhi. Il collo veniva circondato dall’alto bavero della
giacca
in doppio petto di lana damascata color sabbia bagnata, ma pure
lasciava
intravedere la soavissima ed elegantissima attaccatura della sua base
alle
spalle e di lì agli omeri, nel trionfo di un’epidermide dalla
purezza
incredibile, soffice, che mai miglior e preziosissimo tessuto avrebbe
potuto
anche solo contrastare in morbida soavità; solo un finissimo
girocollo
in oro giallo cingeva la meravigliosa gola, dalla quale la suadente e
sempre
allegra voce inondava l’udito del giovane amico di parole di gaiezza e
felicità, in quel solito tono vocale ne troppo alto e ne troppo
basso, mai urlato ed anzi quasi sussurrato, semplicemente stupendo e
ideale
per colui che volesse udire delle dolcissime parole di passione appena
brusite nelle orecchie.
E il corpo, quale
meraviglia!...
Oh, come avrebbe voluto cingere quelle delicate ed insieme sinuose
membra,
come avrebbe voluto riscaldarle con un abbraccio ardente e appassionato
fin dal primo istante in cui s’incontrarono e iniziarono quella serata
insieme... La splendida giacca, pur nello spesso tessuto che
efficacemente
riparava dal pungente freddo, fasciava il busto e ne esaltava i
lineamenti,
il seno voluttuoso, la vita assai stretta e i fianchi formosi, le terga
meravigliosamente sporgenti dalla gentilissima linea della schiena, le
cosce fasciate in attillati pantaloni di raso d’un blu profondo ed
anche
le gambe intere, perfette, armoniose, disegnate da tratti emozionanti e
da proporzioni assolutamente artistiche; infine le eleganti scarpe dal
tacco alto ma non troppo, che disegnavano sulla fredda e cruda terra
l’armonica
linea della sua elegante camminata, dei suoi movimenti estatici, delle
movenze frutto della più alta scienza estetica dettata da regole
mai scritte e semmai innate in chi ha la fortuna di detenerle nel
proprio
essere, come preziosissima virtù. Le mani, quando
non
coperte da raffinati guanti in seta nera con un bordino al polso di
delicati
merletti in rilievo, mostravano tutta la leggiadria del loro essere
perfettissimi
strumenti d’attrazione fatale, con i quali il tatto diveniva arte, la
leggera
pressione dei delicati polpastrelli il tocco magico della dea
anadiomene
protettrice di sì tal meravigliosa creatura, le dita soavi,
fini,
meravigliose, le unghie leggiadre e attraenti.
Camminavano insieme, i corpi
vicinissimi,
tanto che il reciproco calore pareva proteggerli dal gelo dell’aria,
nell’invidia
di chi, infreddolito oltre ogni dire, passava e li rimirava sì
gaudiosi,
immensamente felici della vicendevole compagnia. Alternavano momenti di
calma e di colloquio pacato e riflessivo, ad altri d’esplosione di
gioia
e ilarità quasi infantili, e scherzi e giochi d’ogni tipo.
“Ricordi quando volesti andare
a
quel chioschetto a comprare della liquirizia?”
“Sì, ci scambiarono
prima
per fratelli, poi, alle nostre risa, per felicissimi innamorati!”
“Ah, sì, e
quell’anziano
barista, che faccia fece di fronte al nostro continuato riso,
tant’è
che alla fine contagiammo anche lui di quella nostra felicità!”
“Sì, sì, e poi
ci
mettemmo a rincorrerci per la via quasi del tutto deserta, e che facce
facevano i pochi passanti che ci osservavano come fossimo degli
indemoniati,
o dei bambinetti sfuggiti al controllo di severe madri, incuranti del
freddo
e ilari più di giovani scolari alla fine della scuola!”.
I ricordi fluivano in entrambi
con
l’impeto d’una cascatella del torrente lassù nella valletta,
quando
le nevi prendono a sciogliersi e ne ingrossano via via sempre
più
il corso di zampillante e irrefrenabile acqua. Marco continuava a
osservare
quasi fissamente la bellissima amica e interlocutrice, tanto da
parergli,
da un momento all’altro, di poter cadere nella passionale
profondità
delle di lei stupende iridi, in un abisso di passione che l’anima
voleva
non potesse aver mai fondo, sì da eternamente precipitarci. Le
immagini
scorrevano in mente fluide come non mai, e vivissime: quando i corpi
ancor
più si unirono, ed egli la prese sottobraccio, e il calore che
ella
emanava inondò quasi con violenza il suo cuore, ponendolo in
eccitata
vibrazione convulsa più che una corda di violoncello nelle note
più estreme del pentagramma; le voci che si facevano più
sussurrate, più accalorate, sempre più pronuncianti
parole
di desiderio, gli sguardi che ormai quasi fissi miravano con passione
l’un
l’altro, la perfetta e quasi incredibile armonia che regnava sui loro
discorsi,
e quell’atmosfera di purissima e sincera felicità che riempiva
entrambi
i cuori ed ambedue le anime... Poi egli la invitò in un
elegante
locale che dava, con le sue insegne e le vetrine in art-decò
soffusamente
illuminate, sulla piazza principale della città, proprio
nell’attimo
che pareva cadere dal plumbeo cielo, come sua gelata ed emozionale
lacrima,
timidissima ed evanescente, qualche fiocco di neve di consistenza
eterea;
trovarono un tavolo libero in una delle salette più appartate,
nella
quale facevano bella mostra di sé le stampe di alcuni dei
più
celebri quadri di Toulose-Lautrec, mentre alcune porcellane di
finissima
manifattura di Capodimonte, del XVIII secolo, brillavano tenuemente su
mobiletti in stile Liberty; debolmente, ma chiaramente, giungeva il
dolce
suono del piano intonante alcune delle più celebri suonate per
pianoforte
di Lizst, e nella saletta aleggiava profumatissimo un delicato aroma di
tè, tenue sì ma altrettanto forte e corposo, che
penetrava
profondamente nelle nari dei due appassionati, con l’effetto di
inebriare
ancor più i cuori e le anime, nel continuo superamento d’ogni
limite
d’ebbrezza che chiunque possa mai provare. Ella si tolse
l’elegante
giacca, con un movimento tanto lento e meditato quanto sensualissimo ed
eccitante, che mai nessuna modella su alcuna passerella d’alta moda
avrebbe
potuto solo avvicinare in grazia e leggiadria: tal dono di amabile
armonia
motoria scoprì il leggero jersey ch’ella sotto aveva, nero e
dalle
maniche lunghe ben oltre i polsi, secondo la moda del tempo; il bordato
inferiore, invece, cingeva dolcemente ma decisamente l’esile vita,
cadendo
sui fianchi prosperosi con una leggera damascatura in finto raso che
pareva
la più preziosa cintura cingente il corpo d’una favolosa regina
da mille e una notte. Ma ancor più quel finissimo jersey
onorava
il di lei meraviglioso busto con una ben profonda scollatura a V, in un
gioco di luce ed ombra nel quale la luminosità era data dal fine
girocollo dorato che brillava tenuemente alle fioche luci della
saletta,
mentre affascinante ed eccitante ombra era quella che si generava dallo
scuro ambito carnale tra le rotondità perfette dei due seni,
formosi
quel tanto che bastava da confondere fortemente la mente del giovane
estasiato,
da generare possenti nella mente mille e mille immagini di
voluttà
indefinibile quasi nella sua prorompenza, e perfino soavemente
soggiogante.
In quell’atmosfera d’idillio passionale, nella gioia che ammantava come
aura preziosa e inscalfibile i due giovani, nelle dolci parole
scambiate,
tra gli sguardi pieni di passione e di tenerezza, le mani si
sfioravano,
si toccavano, si cercavano, le punte delle dita si tastavano, i
polpastrelli
premevano l’un l’altro, in una sorta di gioco dietro alla cui
leggerezza
si celava immensa passione e sensualità oramai non più
controllabile,
esondante come impetuoso fiume in piena, finché le dita
s’incrociarono,
s’unirono, come già era per i cuori e le anime, e gli occhi si
fissarono
gli uni negli altri, più senz’alcuna divagazione. In
quell’incrocio
anelato di mani e d’anime, in quel profondissimo sguardo ed entro
quelle
iridi meravigliose, più che divine, egli sentì aprirsi
dentro
mille universi di passione, si sentì nuovamente quasi cadere in
un abisso nel quale l’anima e il cuore vagavano liberi, un abisso senza
fondo e dalle pareti morbidissime quanto è morbido un giaciglio
ove le membra affondino nel momento dell’idillio dei sensi; e ogni
parte
di lui era tanto felice da giungere a uno stato di stordimento, un
iperspazio
nel quale ogni luminosa stella aveva gli angelici tratti di lei, ogni
nebulosa
pareva assumere la di lei figura, ogni galassia risultava immagine
cosmica
dei suoi favolosi occhi... In fondo, poi, la sua stella oscurava
d’immenso baluginare qualsiasi altra, era una sorta di spazio
mono-stellare,
una dimensione immateriale ove tutto era lei, tutto orbitava attorno a
lei, tutto viveva grazie a lei, tutto era perché lei era.
Marco provava uno stato d’ebbrezza emozionale e d’impeto passionale che
non ricordava d’aver mai avuto, così intenso e ardente: gli
pareva,
in quei momenti, che il mondo non potesse esistere senza di lei,
sembrava
che quel luogo, quella città, la terra che calpestavano insieme,
tutto insomma potesse esistere solo perché Federica esisteva; e
gioiva, in cuor suo, al pensiero che gli altri pochi avventori presenti
nella saletta guardassero a loro come ad una coppia innamorata e
felicissima,
e sentiva l’eccitazione crescergli dentro per questa unione con lei che
l’altrui visione e pensiero avevano già sancito. Non
parlarono,
per attimi o forse per minuti interi, giacché erano i sensi a
parlare,
a colloquiare animatamente di discorsi romantici e ardenti, infuocati
quasi,
come mai le parole potrebbero essere, e parimenti ebbri dialoghi
passionali
fluivano nel contatto tra le mani, nell’incrocio delle dita, dolcemente
avviluppati nel calore che vicendevolmente si scambiavano. Egli
sentiva
quasi gli occhi impazzire, incapaci di reggere ad una tale immagine di
bellezza e di soavità, ad una figura così celestiale ed
insieme
terribilmente eccitante: ogni di lei dolce respiro, che quasi
impercettibilmente
faceva gonfiare il busto ed i seni, aveva l’effetto di una tempesta di
violentissima emozione, e di tali turbini impetuosi e voluttuosi ve
n’erano
uno dopo l’altro, ad ogni secondo. In atto, in quella saletta,
v’era
il massimo trionfo dei sensi, v’era l’animarsi incontrollabile e
stordente
della più alta emozionalità immaginabile, mesciata con
l’ardore
più intenso e avvoltolante, e il dolce e soffuso melodiare del
pianoforte
faceva da giusta colonna sonora a quell’egloga romantica; infine, quel
tavolinetto in stile liberty come l’intero arredamento del locale, e la
tenue luce che illuminava quell’angolo, e le tazze in fine porcellana
francese
che ancora olezzavano d’aromi fragranti, e forse il mondo intero, e
l’intero
Universo, fecero da spettatori estasiati al dolcissimo incontro delle
labbra,
ad un bacio leggerissimo ma focosamente appassionato, lunghissimo, nel
quale le carnose linee rosse che incorniciavano le ardenti bocche si
fusero
in un’apoteosi di fuoco lussurioso, languido e inebriante; un bacio che
parve non finire mai, quasi che le labbra l’anelassero tanto da non
riuscir
più ora a staccarsi; un bacio che, nella sua semplice ed insieme
potentissima essenza, conteneva tutti i più sensuali e
passionali
discorsi d’amore, tutta l’eccitata volontà dei sensi di
fondersi,
tutto l’ardore che l’intera umanità mai avrebbe eguagliato in
intensità,
pur se presa nella sua completezza, e tutta la forza d’un legame che
già
era in essere, nei due giovani, da chissà quanto tempo, quasi
che,
in altre precedenti vite, essi fossero stati focosissimi amanti e
quella
sera non fosse che un magico deja-vu verso le passate ebbrezze.
Fuori, il cielo aveva lasciato
il
precedente plumbeo abito, e cadenti sulla gelata terra non v’erano
più
bianchi fiocchi di neve ma luminosi e soffusi raggi di stelle
splendenti,
che quasi per incanto erano riapparse a nobilitare la volta celeste,
pur
nel freddo della notte dicembrina, e parevano salutare con il loro
sorriso
di baluginante gioia l’idillio dei due giovani; ed essi, parimenti,
parevano
stelle tra le stelle, illuminati dall’ardore e dalla passione, due
figure
unite nello scambio di calore carnale, nel turbinio della gelida brezza
che aveva preso a spazzare le strade...
IV.
La stessa brezza, meno
movimentata
e più tiepida, soffiava con leggerezza sui due giovani, seduti
sul
muretto che dava sulla valle, proprio nel mentre che era in scena il
grande
e impetuoso spettacolo del quotidiano desio solare: il cielo infuocato
di incredibili tinte faceva da maestoso contraltare all’invece delicato
e fresco venticello che smuoveva all’unisono i capelli dei due, quelli
castani, bellissimi e lucenti di lei, leggiadramente arcuati in morbide
volute che s’accostavano alle guance colorite, e le bionde ciocche
corte
di lui, in una sorta di danza d’accordo e di consenso totale. Prese
entrambi
dall’emozione intensa del ricordo, le due menti avevano fatto sì
che, come quella meravigliosa sera, le mani s’avvicinassero, si
sfiorassero,
e ora quella di lui s’appoggiava quasi con estrema tenerezza su quella
bianca, dolcissima e gentile di lei, nobilitata ancor più da una
vera che imitava nel disegno e nel gioco di luce dei piccoli diamantini
un anello di gusto medievale, quasi d’inizio del XII secolo, elegante e
raffinato.
“Fu veramente una sera
speciale,
quella, perché tu eri speciale, più che speciale,
straordinaria...”
Di nuovo, alle parole di
Marco,
una evidente vampa d’emozione colorò d’un rosso leggero le
bellissime
gote di Federica, che parlò con la voce delicatamente rotta
dalla
passione:
“No, tu fosti speciale, quella
sera.
Mi sentii come mai m’ero sentita, mi sembrava d’essere una principessa,
onorata e riverita dal suo principe azzurro... Nessuno mai m’aveva
trattato
con così tanta gentilezza, e garbo, e... Amore...”. Ancor
più,
la sua voce si fece bassa e rotta nel pronunciare quell’ultima parola.
“Ah, ma quale principe, che
neanche
ero vestito d’azzurro!...”.
La battuta di lui fece
ricomparire
sull’angelico volto uno di quei sorrisi meravigliosi, attraenti,
simbolo
purissimo della più pura e genuina felicità, e gli occhi
nuovamente parvero illuminarsi di gioia, come lustrissimi specchi di
un’anima
veramente speciale, unica nelle sue virtù. D’improvviso,
fluenti
parole di passione sgorgarono dal cuore pulsante di infinita
sensualità,
e non più le labbra poterono controllare un tal effluvio
dirompente
d’ardore vero e sincero; egli le sentì prorompere con forza, e
ne
fece ad ella prezioso dono:
“Pensa... Se quella sera
avessimo
lasciato libere di correre le nostre emozioni sull’ampia strada della
passione,
come volevano, ora potevamo essere un meravigliosa coppia, un trionfo
d’amore
e di tenerezze... Tu saresti stata la mia meravigliosa rosa, vellutata
nei petali come vellutata graziosamente è la tua pelle, e io
t’avrei
curato più che il miglior giardiniere... I miei baci sarebbero
stati
il liquido fondamentale da suggere per la tua vita, la linfa
indispensabile,
che mai ti sarebbe mancata, mai ti sarebbe mancato nulla, e viceversa
che
la rosa che prima o poi appassisce, mai la nostra unione sarebbe
decaduta,
e sempre tu saresti stata la luce dei miei occhi... Saresti la mia
vita,
saresti la mia poesia, e come tu di me, io vivrei di te... Mai il Sole
tramonterebbe su di noi, e noi insieme saremmo stati il Sole di tutto
l’Universo...
Mio amore...”. Prorompeva la passione, immensa, potente, ardente
più di mille fuochi; sentiva di sfogarsi quasi, Marco Alberici,
da sentimenti che da tanto tempo fluttuavano in sospensione nel cuore,
senza trovare mai la forza d’estrinsecarsi. Federica lo guardava, con
sul
volto un’espressione che sembrava veramente a metà tra la gioia
immensa e incontenibile e l’altrettanto incontenibile e grave
tristezza,
le labbra leggermente torte come quando debbano dimostrare la
felicità
nel corso d’un pianto di gioia. Restò un poco in silenzio, quasi
a voler comprendere appieno il significato delle appassionate parole da
lui proferite, e goderne, e cibarsene nell’anima e nel cuore, suggerne
il significato focoso e profondo, per poi usarne l’intrinseca forza ed
energia per vivere più gioiosamente; poi disse:
“Anch’io, penso... Mi rendo
conto
che spesso ti penso, anzi sempre, ti cerco tra la gente, nelle vie, nei
momenti in cui ritengo che tu possa essere fuori casa... E quando ti
vedo,
il mio cuore accelera a dismisura i battiti, e mi pare d’impazzire...
Per
questo quasi ti sfuggo, e quando ci troviamo di fronte mi sento in
subbuglio,
e... E non riesco ad abbandonarmi, forse, o per fortuna, altrimenti le
tue braccia accoglierebbero l’impeto del mio corpo eccitato e
ardente...
Sempre... Per sempre...”.
Egli la guardò, gli
occhi
fusi definitivamente in quelli di lei.
“Per questo, anche prima,
forse
stava per uscire ad entrambi l’impeto d’un bacio, e tu...”
“Si, no...”. Guardò un
attimo
in basso, poi rifissò le pupille di lui, e sorrise, un sorriso
d’una
dolcezza che mai il giovane aveva rimirato.
La sera, inesorabile, stava
per
ammantare con il suo scuro mantello di tenebra il paesaggio: il forte
rintocco
delle campane, che annunciavano le ore sette, quasi risvegliò
dal
torpore della passione, dall’idillio infinito, dalla quiete esteriore
dell’interiore
tempesta sensuale, i due giovani. Gli ultimi barlumi tenui dei
raggi
del Sole, oramai quasi completamente sceso oltre la lontana linea delle
colline che degradano verso la pianura, conferivano al di lei
bellissimo
viso una tonalità soffusa e intrigante, una bronzatura tenue,
uniforme
e meravigliosa che pareva aumentare ancor di più la
luminosità
naturale dei tratti, ricordando, pur nella sua maggiore chiarezza, la
gentile
fattura bronzea dell’Opi di Bartolomeo Ammannati. Federica doveva
andare,
era già in ritardo, essendo attesa a casa per almeno mezz’ora
prima,
temeva di far pensare male qualcuno.
“Oh... E’ così tardi...
Purtroppo...”.
La voce era rotta, ancora, più di prima, da infinita emozione.
Ella
fece per alzarsi, entrambi fecero per alzarsi, ma, contemporaneamente,
entrambi ebbero un moto improvviso per far sì che l’altro non
s’alzasse,
per trattenerlo accanto, per non farlo andare via, forse, magari per
sempre.
E come per l’azionarsi di un meccanismo naturale, spontaneo, già
scritto nel firmamento dei destini di tutte le creature viventi, come
una
legge dei sensi incontrovertibile, come è destino e legge che la
neve cada e poi si sciolga, come è destino e legge che l’acqua
scorra
verso il basso e non viceversa, come è destino che due cuori che
battono l’un per l’altro prima o poi battano all’unisono, si
risedettero
sul muretto quasi abbandonando nella mollezza del piacere le membra, e
si baciarono appassionatamente, un bacio breve nel computo del tempo ma
lunghissimo nello spiraleggiare tra i sensi in ebbrezza, quasi
sfuggente
nella delicatezza ma talmente ardente di ogni più impensabile e
stordente passione...
Poi ella s’alzo,
definitivamente.
Guardò lui negli occhi con uno sguardo assolutamente penetrante,
e disse:
“Forse, un giorno... Non
lontano...”.
“Sì, un giorno, forse
vicino...”
rispose lui. Salutò con voce quasi stridula, e nuovamente
un ampio e stupendo sorriso illuminò l’estasiante volto, cinto
da
un’espressione ancora duplice, un misto tra la più irrefrenabile
gioia passionale e la tristezza più pesante e insopportabile. Il
giovane appassionato ricambiò con voce soffusa, poi ella se ne
partì
inizialmente con passo spedito e comunque elegantissimo, poi con meno
fretta,
voltandosi spesso indietro e ogni volta sorridendo e salutando con un
ampio
gesto della mano. Lui s’avvicinò al cancello d’ingresso al
proprio
giardino, e continuò ad osservarla nell’allontanarsi, sentendo
quello
stato particolare che la mente prova nell’immediato attimo precedente
il
mattutino risveglio, quando il sogno prende a svanire, leggermente ma
decisamente,
le sue immagini soffuse s’adombrano inesorabilmente, e la coscienza se
ne esce dalla dimensione onirica dolcemente, senza possibilità
di
guardare indietro se non attraverso il ricordo.
Era evidente come quella
meravigliosa
creatura fosse combattuta tra due sentimenti fortissimi, divoranti l’un
l’altro, ovvero l’uno, lui, Marco Alberici, dietro una finora semplice
amicizia la passione più focosa e ardente, l’abbandonarsi al
lascivo
volere dei sensi, il lasciarsi avvinghiare dalla voluttuosità
più
libera ed emozionante, dal godimento più profondo, e dalla reale
volontà sentimentale che sentiva dentro, il tutto contrapposto
violentemente
all’altro, al rispetto di un dovere, di un impegno con un’altra
persona,
alla sua correttezza e lealtà, simbolo di una grandissima
bellezza
anche interiore, di una ammirevole soavità estetica dell’anima,
che la portava a sopportare un’unione probabilmente non voluta
profondamente,
e forse ora anche fortemente dolorosa.
Nuovamente, nel mentre che
ella
s’allontanava verso la sua casa, sita nelle parti più alte del
villaggio,
egli notò la sua estatica bellezza, la sua grazia infinita, la
nobile
eleganza, la luce che emanava e che illuminava il paesaggio attorno,
pur
nella quasi oscurità totale del momento. “Carpe diem” si
ripeteva
continuamente nella mente... Avrebbe voluto corrergli incontro,
abbracciarla,
consentirle di sfogarsi, di trovare un appiglio per concludere quella
storta
storia in corso ed essere così libera di abbandonarsi al suo
ardore,
e riabbracciarla, e ribaciarla infinite volte, eccitarla e sconvolgerla
d’energia concupiscente... Ma non lo fece. Anch’egli, in
cuor
suo, aveva in corso una battaglia devastante, tra mille sensazioni
diverse,
e mille passioni e sentimenti: parve vincere la parte più
discreta,
più riflessiva, più sobria, quella dei sensi più
elevati,
lontani da ogni materialità, purissimi i brillanti in una
dimensione
di sola luce evanescente.
Chissà... Forse era
meglio
così... Forse fu meglio così anche quella sera, fu cosa
migliore
che dopo un tale idillio emozionante ed eccitante, dopo una sì
breve
unione perfetta e ideale, entrambi se ne tornarono per le proprie
strade,
nelle proprie case, senza un seguito amoroso e passionale, come anche
in
quell’ultimo incontro. Un perfetto amore platonico, scevro da difetti
perché
da essi per sua natura inscalfibile, lontano ma ugualmente appassionato
e tremendamente intenso, mai intaccato da incomprensioni, o litigi, o
baruffe,
mai esaurito ed anzi, per quella lontananza, sempre attivo e ardente,
come
è assai più piacevole il ritornare in un luogo carico di
ricordi e dal quale da tanto tempo si manca, piuttosto che in un altro
ove quotidianamente, per qualche motivo, si sosta, si agisce, si vive,
si genera la noia e la stanchezza e il tedio... Una unione
passionale
e focosissima, ma in dimensioni diverse da quella reale, sospesa nel
sottile
infinito dei pensieri e delle fantasie come un eterno, delizioso sogno,
ogni volta riapparente vivido ad una nuova visione di lei, bellissima e
splendente come una figura onirica e solo in tal mondo veramente,
profondamente
e completamente possedibile... Era possibile l’unione tra il
sogno
alla realtà? Si potevano fondere e mescere passioni sì
idealmente
alte con quelle inevitabilmente inquinabili dal gretto e basso
presente?
Forse, forse...
Forse, se quella sera i due
giovani
avessero voluto dare un seguito a quella passione, se avessero voluto
lasciarsi
travolgere dall’impeto dei sensi, generando un’unione d’affetto e
d’amore,
per quelle imprevedibili vie che la vita prende senza che spesso la
mente
ne abbia avvisaglia, ora tutto poteva essere già finito, magari
in malo modo, con alterchi spiacevoli e dolorosi, con l’impeto violento
d’una passione ormai consumata, come è, a volte, appunto per le
passioni più incontrollabili, più violente e infuocate,
che
tosto sono come le rose prima dette, bellissime e affascinanti,
voluttuose
e splendenti, ma poi così velocemente appassiscono, sfioriscono,
perdono la vividità del colore, fino alla definitiva
morte...
L’immagine di lei, viceversa, era sempre fulgida e netta nel cuore, mai
velata o confusa, ed ogni sua visione aumentava il battito cardiaco a
dismisura,
sempre, ugualmente ogni volta come in quella sera di fine dicembre,
nell’eternale
incendio della passione.
Che questo fosse il vero
amore,
l’amore non consumato, quello non succhiato fino al suo midollo di
passione?
Che questo fosse la vera apoteosi dei sensi, bellissima perché
virtuale,
e quindi sempre aperta a mille nuove diverse sfumature emozionali? Che
questa fosse la vera estasi d’amore, sempre impalpabile, sempre
più
fantastica che reale, più onirica che concreta, più
magica
che scientifica?
Marco Alberici aprì il
cancellino
di casa, che leggermente cigolò. La gentile dimora era
già
quasi del tutto celata dall’oscurità, aumentata essa dall’ombra
dei grandi e maestosi alberi intorno, silenziosi custodi naturali del
suo
piccolo mondo: dovevano essere quasi le otto. Il cielo pareva in
luminosissima
festa, lindo e brillante come non mai per quel particolare stato che
offre
la Primavera, grazie a cui l’assenza della velante e alabastrina Via
Lattea,
bassa sull’orizzonte, consente la visione delle zone di spazio
interstellare
più trasparenti, ove la galassia è più
sottile.
Il grande carro degli dei, l’Orsa Maggiore ovvero la ninfa Callisto
tramutata
in animale dalla gelosia d’Artemide per il figlio Arcade, avuto da
Zeus,
già riluceva e illuminava tutta la volta celeste; ad occhio
nudo,
nelle zone d’ombra, si potevano osservare i suoi grandi e meravigliosi
gioielli: Phekda, Merak, Mizar la doppia con la gemella Alcor e tutte
le
altre; e poi brillavano il Leone, la belva di Nemea, figlia di Echidna
e uccisa da Ercole, con Denebola e Regolo, il “piccolo re”; la grande
chioma
della regina Berenice, ch’ella stessa volle donare agli dei, sì
magnificata dalla miriade di scintillanti ammassi galattici; la
Vergine,
ovvero Cerere dea delle messi, con nella mano la sua bellissima Spica,
e il Granchio compiacente, che trattenne la dolce ninfa fino al
sopraggiungere
di Giove, e ancora i Cani da Caccia, Chara e Asterione, tenuti al
guinzaglio
da Boote... La profondissima e penetrante luce di tutte quelle
stelle
meravigliose si rifletteva tenuemente sulle alte cime montuose, ove
l’ultima
neve, sui pendii dove non c’erano ghiacciai a mantenerla eternamente,
si
conservava a fatica, già stretta dalla ormai giornaliera morsa
del
primo caldo pomeridiano, quasi però, lì restante, a voler
ricordare l’inesorabilità del cammino del tempo, e che dopo una
fiorente Primavera, una afosa Estate, un colorato Autunno, tornava il
gelido
Inverno, e la ruota riprendeva il suo giro, il corso irrefrenabile ed
eterno
verso l’infinito...
V’era un profondo silenzio
diffuso;
la città pareva già assopita.
“Oh, stelle, languide stelle,
voi
che siete del mantello celeste meravigliose gioie, sapete conoscere la
trista gioia che anima il mio cuore?”.
Così pensò, tra
sé,
il giovane Marco Alberici, nel mentre che gettò l’ultimo sguardo
al maestoso cielo, e chiuse la porta di casa.
(Calolziocorte, 02 Agosto
2000)
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